La storia. Baby-scacchista riportato a forza in Bangladesh
Il piccolo Ahmed mentre alza una delle tante coppe vinte durante un torneo di scacchi in Veneto
«Aiutami, sono a Dubai, mi stanno portando in Bangladesh! ». Dal 24 ottobre del piccolo Ahmed, nato a Vicenza 12 anni fa e da allora residente a Montecchio, agli amici resta solo un appello disperato inviato di nascosto via whattsapp dal cellulare della madre, che non conosce l’italiano. Nulla più: desaparecido. Portato via dall’Italia, il suo Paese, perché troppo studioso, troppo legato alla nostra cultura, troppo italiano.
«Mi avevano detto che andavamo a fare una visita medica, invece la mamma ci ha portati alla Malpensa», è riuscito a scrivere prima del silenzio lungo settimane. Con lui anche i fratellini Alì, 11 anni, e Nabil, 3, tutti cresciuti in Veneto. Addio all’Italia, a Montecchio, ai compagni della I media (frequentata solo un mese e mezzo), ai libri che adora leggere, agli scacchi di cui è campione, alle tante coppe vinte con orgoglio. Un epilogo fin troppo annunciato, l’ultimo atto di una escalation che Ahmed (nome di fantasia, ndr) negli ultimi mesi aveva confidato a Carlo Bertola, il suo migliore amico ('per me come un padre', aveva scritto in un tema), e che subito Bertola – architetto e papà di un bimbo disabile suo coetaneo – aveva denunciato alla scuola primaria, alla media, ai servizi sociali, all’'Ufficio Tutela Minori' della Aulss8 Berica.
È qui che mesi fa, ben prima della partenza dei bambini, aveva consegnato le chat con cui Ahmed sfogava un dolore troppo adulto per la sua età: «Carlo, non riesco più a sopportare quei due. Mi hanno picchiato, insultato, mi volevano buttare fuori di casa...», scriveva di nascosto. Inutilmente l’architetto gli chiedeva pazienza e rispetto, i genitori non vanno mai insultati: «Non puoi chiedermelo, io non resisto a parolacce, insulti, offese dure. Ho pianto tutta notte e all’una ho mangiato un panino perché non mi davano da mangiare e non riuscivo a dormire».
Tragico il finale: «Soffrivo così tanto che volevo suicidarmi. Basta, non si può amare persone che ti hanno distrutto il cuore e la mente». Messaggi, lettere, temi scolastici, foto di graffi e lividi, tutto raccolto da Ahmed con la determinazione di «andare dai magistrati di Montecchio », così diceva, e denunciare la situazione della sua famiglia, immigrata una dozzina di anni fa dal Bangladesh. Eppure a giugno Ahmed è uscito dalle elementari con tutti 10, il primo della classe.
«E anche per questo è stato portato via, punito per il suo testardo desiderio di studiare», dichiara Bertola, che ha inviato il dossier del suo giovane amico al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, «perché quei bimbi hanno la carta d’identità italiana e studiano nelle nostre scuole pubbliche, abbiamo il dovere di chiederci che ne è di loro». 'Il 20 novembre 1989 le Nazioni Unite hanno approvato la Convenzione Internazionale per i Diritti dell’Infanzia – scrive Bertola al capo dello Stato –, io le parlo di tre bambini di origine bengalese per i quali i diritti all’infanzia non sono stati rispettati!'. Ha conosciuto Ahmed 8 anni fa quando frequentava la materna con suo figlio Jacopo, nato con una disabilità che gli impediva di parlare.
Anche Ahmed non parlava, ma perché stando chiuso in casa conosceva solo il bengalese, così i due sono diventati inseparabili. «Ahmed in prima elementare è stato respinto, non sapeva una parola, così ho proposto ai genitori di aiutarlo nei compiti – continua Bertola –. Lui e il fratellino hanno preso a studiare regolarmente a casa mia, li portavo al cinema, un gelato in piazza, una pizza in compagnia. Ahmed apprendeva da solo, io mi limitavo a tenere il libro aperto e ad ascoltarlo mentre ripeteva le lezioni: ha dimostrato subito una intelligenza particolare, anche se era orgoglioso e quando lo riprendevo piangeva, non sopportava di sbagliare».
Determinato a imparare, il bimbo divora i libri che Bertola gli insegna a prendere in biblioteca, dapprima la saga di Sandokan, che lo affascina perché gli parla del suo Paese d’origine. Poi la sete di sapere lo porta sulle pagine di Anna Frank e Primo Levi, Sepulveda e Allende, De Amicis e Malala. «Per questi fratellini non esisteva calcio né alcun altro sport, ma certo non potevo sostituirmi ai genitori – continua l’architetto –, così ho regalato loro la mia scacchiera». Un’idea che gli è venuta leggendo 'La regina bambina', la storia vera di Phiona Mutesi, bimba ugandese cresciuta nella baraccopoli e diventata campionessa internazionale di scacchi. «Presto Ahmed ha iniziato a battermi, ormai aveva bisogno di un maestro più forte di me, così chiamai Gaetano», 'un vecchio signore molto bravo – lo descrive Ahmed in un tema –. Io fui felice perché Gaetano è gentile. Abbiamo concluso quattro partite, io ne vinsi una... Nelle partite sentii che ero forte, debole, incerto su quale fosse la mossa giusta. Provai la paura di perdere i pezzi'. Questo è l’Ahmed che cresce, che matura nei dubbi, si riappropria della sua vita di bambino studioso. Ma il tutto a casa è vissuto con preoccupazione, il futuro che gli hanno destinato non comprende l’istruzione, finito l’obbligo scolastico dovrà subito lavorare. Questo spiegano a Bertola i genitori, che vedono sempre peggio quell’amicizia.
«Era un bravo bambino, si faceva voler bene da tutti – testimoniano Gaetano e la moglie Lucia, che a Montecchio fanno volontariato con disabili e ragazze immigrate strappate alla tratta – . Come scacchista ormai era al livello 'II nazionale', divorava le riviste specializzate. Vinceva tante coppe, ma il più bel premio per lui era sentire di essere stimato».
Riprende Bertola: «Su richiesta del bambino andavo a casa loro a spiegare i diritti dei figli, a dire che studiando avrebbe guadagnato di più, ma come risultato gli hanno vietato di uscire. A scuola andava scortato dal padre o dallo zio». Resta quel contatto con l’esterno che è whattsapp, con il quale racconta di minacce, 'se continui a essere ribelle ti uccido', di 'botte sulla testa, sulle braccia, sulla mascella e sulla schiena' e si chiede se 'non sia meglio morire'. L’amico adulto lo consola, gli dice che nel mondo ci sono bambini molto più sfortunati di lui, poi gli fa giurare che se un giorno dovessero portarlo via non si farà del male: a 18 anni e un giorno tornerà a Montecchio, dove troverà tutti gli amici ad aspettarlo. Parole che Ahmed assorbe come una spugna e rilascia qua e là nei suoi scritti: 'Nella vita ci sono molte ingiustizie e in Africa i bambini muoiono per malattie e fame – ammette in un tema in classe il 20 maggio 2019 –. Ma è ingiusto anche essere maltrattati da tuo padre e da tua madre – aggiunge –, subìre insulti per ragioni sciocche o perché non appoggi la loro religione.
Essere picchiati è la cosa più triste. Io penso che un vero uomo ragiona con i propri figli... Tutto ciò crea nel mio istinto un vuoto tremendo, l’odio aumenta e l’amore non c’è più'. Parole che spaventano Bertola: «Le chiedo di ricevermi urgentemente – scrive al dirigente delle elementari – per sottoporle la gravità di questa situazione. Ho già parlato anche con la maestra...», si legge nella mail. Cui il preside (oggi ex) risponde che «è sicuramente una situazione particolarissima» ma che «non è la scuola» il posto giusto cui rivolgersi. Invece si allerta l’Ufficio tutela minori del Comune, che – si desume dagli scritti del bambino – non solo fa visite in casa, dove la situazione igienica è pessima, ma convoca Ahmed e registra i suoi racconti. «È tutto secretato», ci dicono all’Ufficio minori, «c’è in corso una triplice inchiesta sulla base di tre esposti», una delle tre aperta d’ufficio dalla procura su segnalazione dello stesso Ufficio. Un altro esposto è di Bertola, il terzo è partito dai genitori di Ahmed, che lo accusano «di trattare Ahmed come fosse suo figlio».
«In realtà mi accusavano di varie cose – conferma Bertola –, prima di volerne fare un cattolico a causa dei libri che gli ho fatto leggere, poi di avere mire pedofile, alla fine di puntare ai soldi di Ahmed quando inizierà a lavorare... Come ho sempre detto ai servizi sociali, secondo me i bambini non andavano tolti ai genitori, ma era urgente sostenere questa famiglia e vegliare perché i figli potessero studiare. Qui regna la Lega, la gente parla tanto di identità italica da salvaguardare, ma mi dica: chi è più italiano di un bambino che a 12 anni ha letto Primo Levi? Chi è più europeo di lui? Sono tutti dispiaciuti per Ahmed ma poi tacciono per indifferenza ». Sul tavolo dell’architetto brillano lucide e solitarie le coppe del piccolo campione di scacchi, voleva gliele custodisse. Lui chissà ora dov’è e cosa sta sperando. Suona il cellulare, sono gli amichetti di Ahmed tutti eccitati: dopo settimane il suo account whattsapp (come foto del profilo ha messo i suoi libri!) è tornato attivo per qualche secondo. «Gli abbiamo chiesto quando tornerà – riferiscono –, ha risposto forse tra 5 mesi, così sarà di nuovo bocciato... Altrimenti, ha scritto, a 18 anni e un giorno».