Le prime case, poi la chiesa. Dopo l’oratorio e poi le scuole, e ancora altre case. Come funghi.
Anno 1965, da nucleo di cascine abitate da braccianti e bovini al pascolo nei prati, il sobborgo, memoria della campagna lombarda, si trasforma rapidamente in una moderna dimensione di cemento lunare dei grattacieli. Uno dei tanti satelliti dormitorio che gravitano su Milano.
La Bovisasca è una piccola enclave, un quadrilatero serrato tra ferrovia, Quarto Oggiaro, Affori, il ponte che lo unisce alla cugina Bovisa, e poi ancora c’è la Comasina. Un paesotto insomma, che quando vai in giro per mezza giornata conosci già tutti, anche perché il punto di contatto più frequentato è un vicino centro commerciale, tra Quarto Oggiaro e Novate Milanese. Il commercio spicciolo è sparito. Sfumato piano piano, uno dopo l’altro i piccoli esercizi si sono spenti come lumicini senza più fiamma e, dunque, il quartiere, suo malgrado, è obbligato a incontrarsi nel centro commerciale. Anche perché oltre al necessario della spesa quotidiana, ormai si trovano anche gli sportelli dell’ufficio postale e della banca. Tutto a portata di mano, per una vita sempre più "inscatolata".
Più o meno settemila residenti, 2600 famiglie. Molte delle quali affondano le loro radici storiche proprio in quei lontani giorni di quando nasce la Bovisasca. Quando ci arrivarono che erano giovani coppie, cariche di sogni e piene di speranza quando trovavano lavoro alla "Montecatini" e anche un appartamento nelle casette residenziali che la storica azienda chimica aveva fatto costruire per i suoi dipendenti. Poi ci fu anche quell’esperimento tra "legge e fuorilegge": i palazzoni popolari di via Cerkovo dove si sono insediate le famiglie di carabinieri e poliziotti, accanto a quelle di soggetti particolari, come molti ex detenuti. Uno strano intreccio di convivenze e frequentazioni fra pianerottoli e cortili, dove, però, i più giovani hanno sperimentato una possibile, seppure complessa e magari dagli adulti maltollerata, integrazione.
Di queste famiglie di oggi delle 2600, sono circa cinquecento quelle composte da giovani coppie arrivate fresche fresce nel quartiere. Tutti gli altri sono un mondo di anziani. E veramente tanti sono quelli soli, soprattutto le donne. Un via è abitata solo da vedove.
Gli anziani la loro solitudine la raccontano in ogni momento della giornata, seduti nel Centro commerciale, o mentre camminano per strada che sembrano coriandoli dopo una festa, sparigliati qua e là.
«Quando li incontro per le strada del quartiere, questi vecchi mi raccontano le loro cose come fanno i bambini. Mi parlano dei loro acciacchi, di quello che hanno mangiato, e poi, in particolare, di quei figli che saltuariamente li vanno a trovare, ma che, però, sono premurosi nel telefonare tutti i giorni per accertarsi della loro salute. Mah! Non so che cosa dire. Vedo nipoti che diventano grandi senza un nonno accanto, e poi non ho in mente una sola famiglia qui che in casa abbia accanto un anziano parente – racconta don Denis Piccinato, da sette anni alla parrocchia di san Filippo Neri –. Potrei dire che da noi ci sono i nonni-pendolari. Vanno a cercare i loro nipotini tra Paderno, Senago, Comasina, oppure Affori, per accompagnarli a scuola, perché i genitori lavorano e non possono farlo. Siamo come una mela tagliata a metà: tanti anziani da una parte, le origini del quartiere, e le giovani coppie, il futuro della Bovisasca dall’altra. Gli immigrati? Pochi».
Il peso della Bovisasca è la solitudine. Abituati ai loro ricordi e ritmi di vita, gelosi della propria autonomia, quando ancora le forze lo rendono possibile, proprietari delle loro case piene di memoria, sono anziani che non ci stanno ad abbandonare le radici, la loro storia, per una soluzione di altro genere. Anche se questa loro resistenza solitaria spesso si trasforma nella trappola dell’isolamento, dello stare chiusi in casa, senza più vita sociale.
«È vero e accade. Proprio per questa ragione la parrocchia si è inventata una serie di attività, in particolare d’estate: sei settimane di attività ricreative e di ristorazione, da metà luglio alla fine di agosto. Un modo per non lasciarli soli nelle loro case avvolte dal silenzio e per non farli sentire soli, ma coinvolgerli il più possibile. Sei settimane di oratorio estivo, sono una manna per il quartiere. Poi, c’è anche la fatica di questi tempi di crisi, la fatica quotidiana di chi ha perso il proprio lavoro e non riesce a trovare nulla. Al Centro d’ascolto, non smettono di bussare», osserva don Denis.
Non ci sono monumenti alla Bovisasca. Neppure qualche storia strana che metta in luce il quartiere. Da quel che si ricorda don Denis, dal suo primo giorno ad oggi, ci saranno stati sì e no un paio di scippi e una rapina alle Poste.
Non c’è molto da raccontare della Bovisasca: «Per fortuna non mi sembra che soffriamo di quei malesseri che attanagliano le grandi città, come l’insicurezza. Non mi sembra di vedere i miei parrocchiani con la paura quando la sera tornano alle loro case, dopo i nostri incontri». «La nostra unica vera curiosità, è la chiesetta dedicata a san Mamete. Un edificio che risale al 1200. Grande come la stanza di un appartamento. Sarebbe da restaurare e così farlo diventare il simbolo della nostra comunità – osserva don Denis –. Perché tutto quello che è presente qui sono manufatti vecchi di sessanta anni, quindi recenti. Ma voglio ricordare l’Associazione amici della Bovisasca. Non esitano a pungolare il Comune sulle cose pratiche da realizzare o da sistemare nel quartiere. E spesso i problemi se li risolvono da soli, spendendosi di prima persona».
Si dice Milano. Ma di città ce ne sono tante e la Bovisasca è una di queste Milano. Sarà per il suo isolamento urbanistico, per il fatto che per accedere al quartiere bisogna percorrere quello strano serpentone raggomitolato di strada sopraelevata sulla ferrovia, ma l’impressione per qualcuno è che «l’amministrazione sembra non avere uno sguardo più consolidato verso questa fettina di città».
I ragazzi della Bovisasca sono un 200 circa. Frequentano le scuole elementari e medie, della parrocchia. Certo un po’ più di mezz’ora di corsa con l’autobus e si è sotto la Madonnina. Ma senza la Polisportiva san Filippo Neri, con sette squadre di calcio e quattro di pallavolo, e il "solito" oratorio, non resterebbe che un centro Centro commerciale per la gente della Bovisasca.