La crisi. Renzi esulta: non vinco io ma il Paese. Pd si allinea, malumuri in M5s
Al termine dell’ennesima infinita giornata di crisi, Matteo Renzi quasi non crede alle sue orecchie mentre ascolta gli «ex alleati» imputargli di non aver accettato il Conte- ter. «Sono giorni che gli stavo facendo un’altra proposta, un governo del bene comune con una personalità di altissimo profilo...», spiega l’ex premier tirando le somme. Il riferimento, nemmeno troppo implicito, è a Mario Draghi. Il quale, sostiene Renzi, poteva tranquillamente 'digerire' un governo politico, ovvero un esecutivo con la stessa maggioranza che si è da poche ore ufficialmente sfaldata. Come a dire a Zingaretti e Di Maio: «Indichiamo noi l’ex presidente della Bce, assumiamoci noi la paternità di una svolta».
Così non è stato, però. Stando al racconto di Renzi, lui si è seduto al tavolo di Roberto Fico dando per scontato che Conte era già superato. Pd e M5s, invece, affermano che sino all’ultimo secondo il leader Iv ha trattato su ministri e deleghe con la consapevolezza che il premier sarebbe stato l’avvocato. A dimostrazione - a prescindere di chi racconti la verità - che l’esplorazione del presidente della Camera si è svolta come un dialogo tra sordi, con un finale già scritto e certo non casuale.
C’è da dubitare sul fatto che Renzi potesse davvero pensare a Mario Draghi a capo di un esecutivo retto da una maggioranza litigiosa e strabordante di nodi irrisolti. In ogni caso, alla fine, l’ex premier ha tutto l’interesse, alla fine di una giornata- snodo, ad autorappresentarsi come colui che guardava avanti e non indietro. E che guardava nella direzione in cui ora guarda anche il capo dello Stato. «Non ho vinto io ma il Paese - si schernisce il capo Iv in serata, dopo aver ascoltato Mattarella -. Io ministro? No, no, ho rischiato tutto per questo esecutivo e ora, per aiutarlo, devo starne alla larga», dice consapevole dell’ondata di malcontento che l’ha travolto per la crisi politica.
«Ma anche se scendo allo 0,2% non m’importa, ho fatto la cosa giusta», confida ancora Renzi. Non a caso è l’ex premier il primo a commentare il Colle: «Ci riconosciamo nella sua guida e agiremo di conseguenza». Cadono in un lungo mutismo, invece, il segretario del Pd Nicola Zingaretti e il leader 'sostanziale' di M5s, Luigi Di Maio. I dem mandano avanti il vicesegretario Andrea Orlando a rappresentare le «perplessità» per possibili alleanze 'spurie' con pezzi di centrodestra. Ancora, l’ex ministro della Giustizia fa sapere che «decideranno gli organi di partito», che «un nome non risolve i problemi politici». Ma il silenzio di Zingaretti e altri big come Dario Franceschini è eloquente: per i dem, dire no al Quirinale in queste circostanze è impossibile. Perché per un Orlando che tuona, c’è un Orfini che applaude Mattarella per l’«immensa saggezza». Alla fine, Zingaretti il silenzio lo rompe e assicura: «Pronti al dialogo per il bene comune».
Molto più complessa la situazione in casa M5s. Luigi Di Maio ha conosciuto Draghi ma prima di sbilanciarsi definitivamente deve capire gli umori dentro il Movimento. Se Salvini e Meloni restano arroccati sulle elezioni anticipate, M5s resta l’ago della bilancia sul prosieguo della legislatura. E questo consentirebbe di convincere verso il «sì» molti dei parlamentari che ora si dicono incerti. Tanto più che senza Salvini e Meloni la maggioranza parlamentare diventerebbe simile alla famosa «maggioranza Ursula » che il Movimento già sostiene all’Europarlamento
La verità è che M5s, che oggi pomeriggio riunisce i suoi gruppi parlamentari, si sta preparando a una scissione simile a quella già vissuta a Bruxelles. Il silenzio di Di Maio è tattico. E nel silenzio tuona Alessandro Di Battista, rilanciando un suo articolo di agosto su Draghi. «L’apostolo delle élite», lo definisce il pasionario M5s. Un siluro contro il sostegno a un governo guidato dall’ex presidente della Bce. Qualcuno si accoda, altri evocano il voto su Rousseau. Secondo la contabilità interna al Movimento, Dibba sarebbe in grado di trascinare fuori da M5s sino a 10 senatori.
Ma sembra un numero in eccesso. In ogni caso, se M5s riuscisse a non allargare la ferita, i numeri di un governo Draghi non sarebbero a rischio. La defezione di Emilio Carelli, che ha annunciato l’addio ai 5s e l’adesione al gruppo Misto della Camera nella prospettiva di fondare una nuova componente (denominata Centro-Popolari Italiani) di centrodestra, sembra propedeutica a raccogliere pentastellati delusi ma comunque innestati in una maggioranza europeista. Ed eventuali «no» dei 5s a Draghi sarebbero compensati dalle piccole truppe di +Europa di Emma Bonino, di Azione di Carlo Calenda e dei moderati di centrodestra. In attesa delle mosse di Forza Italia.