Black Friday. Indebitarsi per la festa. La religione del consumo e i nuovi culti
Una vetrina che annuncia sconti per il Black Friday
Il Black Friday è diventato l’inizio dell’anno liturgico della religione capitalistica. Come ogni nuova religione che intende soppiantarne una pre-esistente, anche il capitalismo consumista sostituisce le feste cristiane con le sue nuove feste, e sovrappone i suoi tempi liturgici a quelli precedenti. Quando una religione subentra ad un’altra non cambia l’antico ritmo del tempo sacro, più semplicemente lo occupa, e ne cambia il senso. È infatti interessante che il Black Friday segua il giorno del Ringraziamento, una delle feste religiose dei primi pellegrini.
E così, dopo aver ormai da tempo restituito il Natale alla sua prima natura di festa pagana (il “sol invinctus” dei romani), e dopo aver messo a reddito le ancestrali feste dei morti con Halloween, il consumismo ha introdotto il suo avvento.
È questa sostituzione delle feste che dice, con grande efficacia, che siamo entrati nell’era post-cristiana. Perché, come ci ricordava nell’autunno del 1921 il grande filosofo e teologo russo Pavel Florenskij: «Il punto di partenza della cultura è il culto perché la realtà originaria, nella religione, non sono i dogmi e nemmeno i miti, ma il culto, ovvero una realtà concreta». Nessuna religione diventa cultura senza culto, e il consumismo è diventato religione perché il nostro mondo è immerso nel culto del consumo. E come nel Medioevo il cristianesimo divenne cultura perché la religione cristiana entrava in ogni operazione e gesto della vita delle persone (campane, preghiere, calendari, feste, spazi misurati in avemarie, parole, narrazioni…), oggi l’economia è diventata cultura universale grazie al suo culto e culti quotidiani (comprare, vendere, pubblicità, misurare, linguaggio, narrative e storytelling delle imprese).
Mentre Florenskij pronunciava le sue lezioni di filosofia all’Accademia Teologica di Mosca, negli stessi mesi il filosofo ebreo Walter Benjamin scriveva le sue note sul Capitalismo come religione, pagine tra le più profetiche del Novecento: «Il capitalismo è una religione puramente cultuale, la più estrema forse che mai sia stata data. Tutto, in esso, ha significato soltanto in rapporto immediato con il culto; non conosce nessuna particolare dogmatica, nessuna teologia». Una religione di sola prassi, di solo culto, senza metafisica: «La trascendenza di Dio è caduta. Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione, nell’assoluta solitudine della propria orbita, è l’ethos che caratterizza Nietzsche. Quest’uomo è il superuomo, il primo che, riconoscendo la religione capitalistica, comincia ad adempierla». Quindi, per Benjamin, «il cristianesimo nell’età della Riforma non ha agevolato il sorgere del capitalismo, ma si è tramutato nel capitalismo». E la domanda diventa: chi è il superuomo del capitalismo, quell’oltre-uomo capace di vivere in un mondo dove il Dio (ebraico-cristiano) è morto perché «lo abbiamo ucciso noi» (La Gaia Scienza)?
Dopo le analisi di Max Weber, abbiamo pensato che il grande eroe del capitalismo (protestante-calvinista), il suo superuomo, fosse l’imprenditore, un protagonista non molto diverso dal capitalista di Marx e dall’industriale di Saint-Simon. Per Benjamin, però, non è così, o quantomeno non è più così. La prima stagione del capitalismo dell’Otto e Novecento aveva avuto come eroe l’imprenditore-capitalista, che grazie al successo negli affari sperava di essere benedetto e predestinato. Ma col passaggio di millennio il superuomo del capitalismo è diventato il consumatore. Inoltre, il tratto saliente della nuova religione di puro culto è per Benjamin «la durata permanente del culto», perché «il capitalismo è la celebrazione di un culto “senza tregua e senza pietà”. Non ci sono giorni feriali; non c’è giorno che non sia festivo, nel senso spaventoso del dispiegamento di ogni pompa sacrale, dello sforzo estremo del venerante».
Il sogno del consumatore-devoto è un Black Friday di 24 ore al giorno che duri tutto l’anno, un mondo dove il sacrificio (lo sconto) sia permanente - il sacrificio viene offerto dalle imprese al consumatore, invertendo la logica originaria dei sacrifici tradizionali, a dirci che l’idolo-superuomo non è il profitto dell’impresa, né la merce, ma il consumatore.
Finché il capitalismo si era espresso come un’etica dell’impresa e del lavoro era rimasto una faccenda elitaria e di classe; è stato il passaggio dall’impresa al consumo a trasformarlo in religione universale (cattolica) e popolare, che ha occupato pienamente e profondamente l’anima dei popoli comunitari dei Sud, quelli legati all’etica della vergogna e al consumo vistoso, dove la retorica produttiva non era riuscita ad entrare. Il culto universale poteva avvenire solo uscendo dalla fabbrica ed entrando nei consumi, dove la benedizione si ottiene semplicemente consumando, meglio se a debito, un debito-schuld dal quale il nuovo capitalismo è riuscito ad eliminare l’antico senso di colpa. Ogni religione popolare tende a moltiplicare le sue feste, perché piacciono al popolo e piacciono ai sacerdoti che ci guadagnano. Negli anni Quaranta del Settecento, Antonio Ludovico Muratori, lanciò una forte battaglia culturale e politica per cercare di convincere papi e vescovi dell’importanza di ridurre le feste di precetto nella Chiesa cattolica, che in quegli anni erano state fissate a trentasei l’anno, oltre alle domeniche. Il sacerdote Muratori voleva ridurre le feste perché era convinto che la proliferazione delle feste peggiorasse la condizione dei poveri: «Per i poveri come va?» (Lettera del 14.8.1742). Le molte feste oltre a ridurre i giorni di lavoro portavano infatti i poveri ad indebitarsi per far festa. Ieri, e oggi.
Con l’avanzare del nuovo culto consumista dobbiamo aspettarci una nuova proliferazione delle feste di precetto, perché il consumatore va venerato. Alle antiche trasformate se ne aggiungeranno di nuove. I nuovi sacerdoti si arricchiranno grazie ai loro “sacrifici”, e i poveri saranno sempre più distratti e sempre più poveri.