Intervista ai genitori. I Regeni: «Su Giulio ci siamo sentiti presi in giro»
Anche il tricolore, esposto a mezz’asta e listato a lutto, sul municipio di Fiumicello, sembra impietrito. È in questo paesino che continuano ad abitare i genitori di Giulio Regeni, Claudio e Paola.
Signora Paola, perché ha deciso di pubblicare nel suo profilo Facebook la foto del tricolore, aggiungendovi la scritta «sempre più lutto!»?
La mattina del 15 agosto sono uscita di casa per comperare i giornali e leggere dell’invio dell’ambasciatore al Cairo, ma nello stesso istante che sono salita in bicicletta ho pensato alla bandiera listata a lutto, presente negli edifici pubblici, scuole comprese dal 13 ottobre 2016 che caratterizza la scelta di Fiumicello. Bandiera a lutto finché non ci sarà verità per Giulio e quindi giustizia. La notizia del cambio di strategia del nostro governo ha rinnovato profondamente non solo il mio lutto di madre, ma anche di cittadina italiana e ho pensato al concetto di Stato di diritto.
Concetto per voi disatteso?
Lo Stato di diritto - si legge nelle definizioni - è quella forma di Stato che assicura la salvaguardia e il rispetto dei diritti e delle libertà dell’uomo, insieme alla garanzia dello stato sociale.
Conferma che vi recherete in Egitto il prossimo 3 ottobre per continuare a chiedere verità e giustizia?
Certo.
Il “New York Times” ha scritto che Giulio è stato ucciso dai servizi segreti egiziani e ha specificato che l’Italia ha ricevuto le prove dagli Stati Uniti. Palazzo Chigi ha smentito. Che idea vi siete fatti delle recenti ricostruzioni?
Anche per noi è stato un fulmine, però non a ciel sereno. Aspettiamo ora la traduzione degli ultimi documenti ricevuti dal Cairo e l’incontro delle Commissioni Camera e Senato del 4 settembre.
Cosa vi aspettate?
Auspichiamo una relazione dettagliata della parte italiana e un confronto con la parte americana. Se il tutto corrispondesse a quanto affermato dal giornale americano, la cosa sarebbe molto grave, e confermerebbe la mancanza di trasparenza per noi cittadini e di rispetto per Giulio, assieme alla perdita di tempo prezioso per la nostra procura.
L’Italia ha deciso di far tornare al Cairo l’ambasciatore Giampaolo Cantini, alla luce, come è stato spiegato, dei nuovi documenti che la Procura egiziana ha trasmesso a quella di Roma. Ma voi la pensate in modo diverso, lo avete già detto. Non vi ha aperto spiragli di fiducia neppure la telefonata del presidente Gentiloni?
La telefonata non è stata per nulla rassicurante sia per la tempistica sia per i contenuti. Pochi minuti dopo la fine del colloquio è partita l’agenzia che comunicava l’invio dell’ambasciatore Cantini al Cairo. Abbiamo capito che c’era un copione pronto da tempo e nessun desiderio di confronto. A nostro avviso, anche se i punti di vista sono diversi, la democrazia dovrebbe partire dal confronto aperto tra le parti. Francamente, ci siamo sentiti presi in giro come cittadini, sia per la modalità sia per la tempistica dell’informazione.
Secondo il New York Times non è ancora chiaro chi abbia ordinato di rapire Giulio e chi, presumibilmente, di ucciderlo. Sostiene, però, che gli americani sapevano per certo, e fu detto agli italiani, che la leadership egiziana ne era a conoscenza.
Abbiamo compreso in questo tragico percorso di vita nostra e morte di Giulio che tutto è possibile, siamo in attesa di conoscere i dettagli.
In questi mesi, avete incalzato le autorità per sapere se le priorità in Italia fossero altre rispetto alla verità?
Abbiamo cercato di fare quanto più potevamo e fondamentale è stato, e lo sarà sempre più man mano che passa il tempo, il supporto di coloro che ci aiutano quotidianamente, con il cuore, con la mente e con il “giallo”.
Qual è stato, in questi mesi, il maggiore conforto che avete ricevuto?
Il conforto per noi è qualcosa di tangibile che nasce da azioni, che si concretizza in fatti oltre che da parole. L’affetto di famiglia è fondamentale, ma anche il nostre legale Alessandra Ballerini, i veri amici storici nostri e di Giulio, l’incessante lavoro della procura di Roma e di tutti gli uomini e donne che lavorano alle indagini, tutte le persone che giornalmente tengono accesa la ricerca di verità, in primis Amnesty International, il buon giornalismo etico, le pagine Facebook che lavorano incessantemente, i cittadini che mettono in primo piano i diritti umani. Grazie a tutti questi.
Che forza vi ha dato la preghiera?
Diciamo che ci sentiamo d’andare oltre la preghiera, vogliamo collocarci in una dimensione spirituale che comprende la bellezza, la sintonia con la natura e gli altri. Al Uwc College di Montezuma nel New Mexico, dove ha vissuto Giulio con persone di 80 nazionalità diverse per due anni, c’è un edificio di forma circolare all’interno del quale le pareti sono bianche. Bianche perché le finestre riflettono la luce, scomponendo la luce bianca in tutti i colori dell’arcobaleno, creando così un’atmosfera mistica, diventando un luogo di raccoglimento e di preghiera per tutte le religioni. Noi ci siamo stati insieme a Giulio e questo costituisce per noi la massima rappresentazione della spiritualità umana, accompagnata dai colori della pace. Pace che per ora è inesistente per noi e che forse potrà esserci solo in parte quando avremo verità e giustizia per Giulio, e per tutti i Giulii e le Giulie d’Egitto.