«Dovremo andare oltre, molto oltre gli steccati del Pd. Perciò già i "Comitati per il sì" dovranno andare molto oltre i nostri circoli, dovranno aggregare personalità nuove, giovani, imprenditori, gente che nella nostra sede non ci ha messo mai piede...». Scalpita Matteo Renzi. Ha voglia di iniziare subito la campagna elettorale per il referendum: già lunedì, il tempo che il ddl finisca in Gazzetta ufficiale. E l’obiettivo dei prossimi cinque mesi è chiaro, quasi scontato: un vero e proprio «assedio» ai moderati, agli orfani di Berlusconi prima di tutto, ai delusi M5S. «L’affluenza sarà alta, il fronte del no chiamerà al voto come fossero elezioni politiche. E noi dobbiamo portarne alle urne almeno uno più di loro. Non ci serve un trionfo, ma vincere. C’è un Paese fatto di persone responsabili che sanno che questa è l’ultima possibilità non per me, ma per l’Italia. Chi ha votato centrodestra è contro il bicameralismo. La gran parte degli italiani sa che affossare la riforma avrebbe conseguenze drammatiche». Il piano dunque è pronto. Renzi l’ha vidimato. A scriverlo, in gran parte, Jim Messina, il guru della prima campagna di Obama, quella dello storico
«yes we can» . Il consulente americano ha tenuto a rapporto parlamentari, dirigenti e uomini-comunicazioni dem più di una volta. E ha ripetuto ossessivamente una sola domanda: «Dovete spiegarmi cosa cambia nella vita degli italiani con questa riforma». E le risposte saranno tradotte negli slogan. «Non ci sono più gli stipendi per i senatori». «Sparisce il Cnel, che consumava soldi senza fare nulla». «Il governo e il Parlamento daranno risposte molto più in fretta ai problemi degli italiani». Slogan a due volti. Quello positivo. E quello negativo. «Chi non vuole questa riforma vuole pagare ancora 945 parlamentari». La campagna «pop» è tutta qui, in frasi semplici da distribuire «porta a porta», sia presso le porte fisiche sia, soprattutto, attraverso le porte web di Facebook, ormai il social preferito del premier. Messaggi semplici messi tra le mani di persone nuove che non masticano politica e che risulteranno più credibili dei soliti dirigenti locali. I circoli Pd, gli addetti ai lavori, i centri culturali faranno il loro lavoro con convegni e altro. Ma per il resto si attaccheranno al treno, per capirsi. I nodi della campagna non saranno loro. I fondi per la campagna non passeranno per le solite stanze, almeno non tutti. Il modello sono le primarie 2012, quando i comitati per Matteo Renzi potevano essere anche più di uno nello stesso territorio, per raccogliere sensibilità diverse. Potranno anche avere una diversa matrice politica: ad esempio saranno accolti nel coordinamento i comitati che nasceranno su ciò che resta di Scelta civica (ieri spaccata anche alla Camera nel voto finale) e del movimento di Oscar Giannino. Pure i verdiniani faranno i loro comitati, è certo. Chi si metterà in luce avrà un’opportunità doppia, entrare dritto dritto nel «nuovo Pd», scalare le posizioni del partito così come il giovane leader ha scavalcato gli ex Ds. Avranno dunque una supermotivazione per vincere. Tutto chiaro. Ma non tutto semplice da realizzare. Ci sono i fattori politici da considerare. E qui Jim Messina può fare poco. Questi fattori sono tra le mani di Matteo Renzi. Il quale girerà l’Italia come una trottola. «Dopo due anni finalmente posso uscire dal Palazzo», dice in questi giorni con toni liberatori il premier. Ma non è detto che ciò che troverà gli piacerà. C’è uno scenario horror che fa davvero paura, e che potrebbe condizionare la corsa referendaria di autunno. Primo tassello dello scenario horror, un quorum del 40 per cento alla consultazione di domenica sulle trivelle. Secondo tassello dello scenario horror, la sconfitta a Milano, Roma e Napoli al voto di giugno e senza raggiungere il ballottaggio nella Capitale e nel capoluogo partenopeo. Questi due elementi insieme sarebbero la peggior premessa della campagna d’autunno. Sulle trivelle, poi, il premier non si dà pace. Ormai lo ammette a voce alta, ha sbagliato a politicizzare il voto di domenica. E il governo ha sbagliato anche in legge di stabilità, quando con correzioni normative ha sterilizzato cinque dei sei quesiti posti dalle regioni. Bastava fissare un limite alla proroga delle concessioni in essere per sterilizzare anche il sesto. Ma ormai è andata. Ci sono anche altri fattori politici. Jim Messina ha sintetizzato la strategia del fronte del no in una sola tesi: «Diranno che sei un dittatore che vuole annullare la democrazia ». Ma in sé e per sé non è una 'narrazione' che preoccupa il guru di Obama e il premier. Se però l’esecutivo dovesse incorrere in un nuovo caso Guidi, se dovessero esserci altre carte giudiziarie che mettono nel mirino ministri e governo, il combinato disposto tra campagna per il no e sospetto di corruzione potrebbe condizionare l’esito del referendum. I filoni non mancano, dalle banche al petrolio. Sembrerà paradossale, ma il fattore politico meno preoccupante è rappresentato dalla minoranza dem. Per ora non risultano agli atti del premier adesioni di esponenti della sinistra ai 'Comitati per il sì'. «Poco male», ragionano i fedelissimi di Renzi. Ripetendo il solito ritornello: «Se si spendessero per il no ci farebbero un piacere». Sarà dunque respinto, per il momento, il documento con cui la minoranza chiede, in cambio del sostegno al referendum, cambiamenti all’Italicum. Eventuali e poco probabili correzioni alla legge elettorale saranno - ove ce ne fosse necessità - l’ultimo atto della legislatura. Il premier è realista: sa che nuove trattative con la sinistra ora non sono praticabili, e comunque lui non ce li vede Speranza, Bersani e Cuperlo a siglare un patto e girare l’Italia per sostenere una riforma costituzionale che hanno criticato dall’arrivo in Commissione sino all’ultimo voto. Volenti o nolenti, sarà uno contro tutti, Renzi contro resto del mondo. «E se vinco io, gli altri dovranno fare le valigie. Perciò ce la metteranno tutta a darmi la spallata. Perciò io ci metterò tutto me stesso...».