Il caso. Razzismo, l'Italia del pregiudizio
Il medico e scrittore Kossi Komla-Ebri, di originario del Togo
«Non voglio farmi visitare da un medico negro...». Di solito, gli insulti razzisti cominciano così. E spesso degenerano in pesanti aggressioni verbali se non peggio. Come nel caso capitato il 14 novembre scorso a Enock Rodrigue Emvolo, originario del Camerun, appena nominato titolare di un ambulatorio a Fagnano Olona, nel Varesotto. Le offese dai suoi nuovi “pazienti”, il dottor Emvolo, 48 anni, laureato alla Sapienza di Roma, le ha ricevute per iscritto, e a raffica, sui social: «Torna a pascolare le pecore», è una delle più leggere. «Sono venuto qui per curare – è stata la sua risposta – ma se la situazione è così grave andrò altrove». Poi, però, a seguito dell’ondata di solidarietà che ne è seguita, ha deciso di rimanere al suo posto di medico di base. Non tutti però reagiscono alla stesso modo. E cresce il numero dei sanitari che, mortificati dalle offese subite, se ne vanno dall’Italia.
«Negli ultimi cinque anni, più di 300 professionisti della salute stranieri hanno lasciato l’Italia per colpa dei pregiudizi sul colore della pelle, l’abito e l’origine – denuncia Foad Aodi, presidente dell’Amsi (Associazione medici stranieri in Italia) – e nonostante la grave mancanza di personale sanitario esistente nel Paese». In effetti, in questo campo, le discriminazioni razziali negli ultimi tempi sembrano molto più frequenti. Ne sa qualcosa anche il dottor Andi 'Nganso, 30 anni, originario del Camerun, due lauree, tra cui quella in medicina conseguita all’università dell’Insubria, che è stato bersaglio di improperi razzisti per due volte: nel gennaio del 2018 quando era in servizio alla Guardia medica di Cantù (Como) e una donna appena l’ha visto in camice bianco è uscita sbattendo la porta e dicendo: «Io da lei non mi faccio toccare»; e tre mesi fa nel pronto soccorso di Lignano (Udine), dove un 60enne lo ha minacciato: «Fermo, mi attacchi le malattie, preferisco due costole rotte anziché essere curato da un negro come te».
E non finisce qui. Aodi riferisce di dottoresse dello Yemen e di otto ginecologhe somale che se ne sono andate a lavorare in Francia, Olanda e Belgio perché discriminate in Italia a causa del velo o della pelle scura. «Ma episodi hanno riguardato anche medici e infermieri africani, musulmani, ucraini, russi, albanesi e rumeni – aggiunge il presidente Amsi – per la lingua o la religione e ci sono state persino molestie sessuali».
«Il razzismo contro i neri in camici bianchi sta diventando preoccupante, non riguarda solo i medici e, purtroppo, è strutturale» commenta Kossi Komla-Ebri, medico e scrittore originario del Togo, esponente della letteratura migrante in lingua italiana. «Non siamo di fronte a “casi isolati di qualche stupido” – spiega – ma di fronte a un persistente problema culturale del rifiuto del diverso, che non possiamo più liquidare con semplici frasi di circostanza». Gli atti di razzismo, piccoli o eclatanti fanno parte della vita dei cittadini neri in Italia. «Noi medici neri e gli afrodiscendenti – prosegue Komla-Ebri – viviamo l’afrofobia nel quotidiano, perché il “nero” in questo nostro Paese è la personificazione del diverso, dello straniero che l’immaginario collettivo relega nel soliti ruoli di “vu cumprà”, spacciatori e criminali o poveracci alle cui cure nessuno si affiderebbe per una diffidenza sistematica che parte dallo sguardo arrivando talvolta alla sfiducia e al rifiuto». Cosa fare, allora? «Se un paziente mi rifiuta solo perché sono nero, io lo denuncio e dovremmo farlo tutti». «Ma l’Italia non è un Paese razzista – sostiene il presidente Amsi –, il razzismo semmai è figlio dell’ignoranza e delle strumentalizzazioni politiche». Aodi, che è anche membro della Commissione Salute Globale della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, ha chiesto un incontro urgente con il ministro della Salute, Orazio Schillaci per valutare iniziative concrete «per garantire tutti i professionisti della sanità di origine straniera e combattere le discriminazioni». Ma anche per sollecitare provvedimenti che consentano ai medici non italiani di partecipare a concorsi pubblici.