Intervista. «Rapporto malato partiti-cittadini. E queste riforme non sono la ricetta»
«La scrittura della Costituzione è avvenuta in un contesto di grandi divisioni ideologiche che avevano però un forte e comune radicamento popolare che diventava, spesso, stimolo di dialogo e addirittura anticipazione di mediazioni. I partiti esprimevano differenze che non albergavano solo nelle sedi del potere, ma che avevano profonde radici sociali e popolari. Ora, con la fine delle ideologie, i partiti non cercano neppure più un’intesa, ma galleggiano sulla società e l’interazione degrada a battaglia (o spartizione) di rendite». Nel confronto tra la stagione costituente e il presente della politica ci sono tutte le preoccupazioni di Filippo Pizzolato, professore di Istituzioni di Diritto pubblico all’Università di Padova e di Dottrina dello Stato alla Cattolica di Milano, apprezzato relatore alla recente Settimana Sociale di Trieste.
Professore, lei a Trieste ha parlato di rapporto malato fra cittadini e politica. Che cosa intendeva dire?
Malato è il rapporto tra partiti e cittadini. I partiti devono garantire il collegamento tra la sfera sociale e quella politica, ma hanno disertato questo ruolo, assumendone uno, opposto e disfunzionale, di forze di occupazione di gangli sociali. Più che un’integrazione con la società, i partiti tentano spesso l’appropriazione strumentale e la “targatura” di iniziative civiche o di successi sociali, economici o sportivi; o mirano alla cooptazione di candidati-simbolo, usati come spot, anziché espressione di un legame vero con mondi vitali; o, in modo ancora più perverso, spargono germi di divisione sociale.
In crisi dunque, più di tutto, sono i partiti malati di “leaderismo”. Nella Costituente Moro e Mortati proposero di inserire l’obbligo di democraticità interna, ma i comunisti si opposero per difendere il loro “centralismo democratico” e non passò. Fu un errore?
Ragioni tattiche e storiche impedirono l’esplicitazione in Costituzione del criterio dell’ordinamento interno democratico dei partiti. Possiamo dire che fu un errore. Ma che non giustifica alcunché della latitanza di oggi, perché l’interpretazione sistematica della Costituzione consente di fondare l’esigenza della organizzazione interna democratica dei partiti, che è un passaggio regolativo indispensabile perché i partiti tornino al ruolo di raccordo tra tessuto sociale e istituzioni.
In questo contesto il premierato potrebbe ridare forza ai cittadini, come sostengono le forze di governo?
No. Anche a non voler cedere ad allarmi di svolta autoritaria, le modifiche proposte accreditano un modello istituzionale improntato alla delega verso il potere, a vantaggio di un’autorità monocratica, il/la premier, eletto direttamente. L’investitura del leader appare slegata perfino da partiti di riferimento, che degradano a liste (di) serventi, beneficiarie di un premio di maggioranza. Per sfiducia nei partiti, che però non vengono mai riformati, si apre la strada a possibili avventurieri, imposti comunicativamente, che magari faranno il lavoro “sporco” per altri che restano nell’ombra… Mancano adeguati contrappesi istituzionali, non solo rispetto al presidente della Repubblica, ma soprattutto rispetto al Parlamento. E si modifica la seconda parte della Costituzione senza curarsi della coerenza con la prima. Eppure la Costituzione, nei principi, esprime con il fondamento sul lavoro e con la valorizzazione dell’autonomia istanze antitetiche rispetto a queste riforme. Con il fondamento sul lavoro, la Costituzione valorizza la partecipazione feriale e plurale dei cittadini e al contempo promuove l’aspirazione a una democrazia retta sulla corresponsabilità nella costruzione della Repubblica. Il premierato procede nella direzione opposta della delega al potere e accredita l’idea, contraria a Costituzione, che il volere popolare possa essere unificato sotto la volontà singolare di un potere direttamente elettivo.
L’autonomia è un principio costituzionale caro a Sturzo e De Gasperi. Perché questa autonomia differenziata non va bene?
Perché è poco credibile un progetto di autonomia che è associato - con quale coerenza che non sia la tenuta della maggioranza? - a un meccanismo di verticalizzazione centralistica come il premierato, che smentisce la logica autonomistica che si regge invece sulla valorizzazione del pluralismo, della differenza e della partecipazione sociale. E poi perché l’autonomia di cui si parla non muove dai Comuni, grandi assenti di questo processo, e dalle concrete funzioni amministrative, ma assomiglia a una resa dei conti di potere (e di risorse) tra espressioni della classe politica nazionale e regionale, con il rischio concreto che si compiano in leggerezza scelte difficilmente reversibili.
Da dove ripartire? Da una nuova legge elettorale?
Prioritario è il radicamento democratico dei partiti. In assenza di questo, i partiti hanno dimostrato di saper imprimere una torsione su qualsiasi formula elettorale. Queste formule devono uscire dal cono d’ombra del governo e diventare luogo di condivisione-mediazione, in tempi lontani dalle scadenze elettorali. E più che alla riforma della Costituzione, bisogna guardare ai piani bassi: alle nuove forme di vitalità e di partecipazione civica, anche dei giovani. E all’Europa...
Trieste che prospettiva apre per i cattolici impegnati nel sociale e in politica?
Quella della serietà dell’impegno politico. E della serietà, non della retorica, costituzionale. Occorre fare attenzione al rischio di cedere alle lusinghe del potere. E interrogarsi sulle forme istituzionali che promuovano le forme di impegno civico e di responsabilità sociale. Inutile proclamare la sussidiarietà e l’autonomia, se poi non se ne sanno leggere i risvolti istituzionali.