Terrorismo. «Rischio di radicalizzazione sul web e nelle carceri»
«C'è una specificità» italiana nei fenomeni di radicalizzazione e «per certi versi è più rassicurante, nel senso che le dimensioni numeriche della radicalizzazione sono minori che in altri Paesi». È la valutazione del presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, che insieme al ministro dell'Interno Marco Minniti ha presentato a Palazzo Chigi gli esiti del lavoro della Commissione di studio sui radicalismi che possono condurre a episodi di terrorismo jihadista. Un lavoro di analisi durato quattro mesi: «Uno dei risultati più importanti - afferma il premier - è aver appurato che i percorsi di radicalizzazione si sviluppano soprattutto in alcuni posti, nelle carceri e nel web, più che in altri che magari abbiamo molto seguito negli scorsi anni» e che non c'è uno schema «uguale per ciascuno dei soggetti che si radicalizzano, sono situazioni molto diverse. Ma bisogna lavorare sulle carceri e sul web per la prevenzione».
Secondo Gentiloni, «il fatto di avere un numero minore di persone radicalizzate o di foreign fighters non ci deve indurre a sottovalutare il fenomeno e la necessità di capirlo. Questo lavoro proseguirà...». Resta fondamentale comunque, concordano il premier e il ministro Minniti, evitare di «fare equazioni improprie tra immigrazione e terrorismo». L'Italia, dice il titolare del Viminale, deve elaborare una strategia che unisca alla repressione di polizia e giudiziaria, politiche di "deradicalizzazione". Anche perché, in una fase in cui l'Islamic State sta perdendo terreno in Iraq e Siria, ci potrebbe infatti essere un «fenomeno - per quanto limitato - di foreign fighters di ritorno». Infine, contro il reclutamento in Internet, Minniti suggerisce di costruire «una rete contro il 'malware del terrore' che sta sul web».
Prevenzione "soft" oltre alle indagini
Il dossier, una cinquantina di pagine con note e riferimenti bibliografici, non è stato diffuso per intero alla stampa. Nel documento di sintesi, si parte da una premessa: in Italia «il fenomeno della radicalizzazione jihadista, per quanto presente, non è paragonabile né per dimensioni o per intensità della minaccia alla maggior parte dei Paesi del centro-nord Europa. Per ragioni che variano dall’aspetto demografico alle capacità del nostro sistema antiterrorismo, l’Italia non ha registrato né mobilitazioni di massa verso aree di conflitto, né massicce filiere di reclutamento, né attacchi della portata di quelli verificatisi altrove».
Una valutazione confermata in conferenza stampa dal professor Lorenzo Vidino, presidente della Commissione e direttore del programma sull’estremismo presso il Center for cyber and homeland security della George Washington University:«Si contano poco più di 100 foreign fighter partiti dall'Italia per combattere nelle milizie del Califfato, rispetto ai 1500 di un Paese pur vicino come la Francia». Le linee principali indicate nel dossier sono almeno tre: una strategia di lungo termine per prevenire i fenomeni di radicalizzazione; l'individuazione di percorsi di de-radicalizzazione; una politica di contro narrativa per fermare il messaggio di propaganda dello Stato islamico e del network del terrore. «La comunità dell'antiterrorismo - prosegue Vidino - ha capito che un approccio basato solo sulla repressione non è più sufficiente», occorre affiancargli «strumenti di prevenzione, misure soft che vanno a prevenire processi di radicalizzazione in fase embrionale».
Finora in Italia «mani legate»
Anche se si tratta di un fenomeno «a bassa intensità», esistono «soggetti on line chiaramente italiani, convertiti o di seconda generazione, che sono attratti da messaggio jihadista», precisa Vidino. Tuttavia, rispetto ad altri Paesi europei, sono ancora in un numero inferiore: «Quando venne fondata da un giovane residente nel Bresciano Sharia for Italy, vi aderirono in quattro. In Belgio erano stati centinaia», ricorda Vidino. In ogni caso, esistono italiani "convertiti" all'islam radicale o italiani di seconda generazione, figli di immigrati, sensibili alla radicalizzazione. La loro presenza è visibile da chiunque su Twitter e, più in generale, sui social. Ed è per questo che occorrono sistemi per prevenire la radicalizzazione, che al momento l'Italia non ha. «È un investimento a lungo termine - argomenta Vidino - Finora l'Italia è stata latitante da questo punto di vista, non ha una strategia di prevenzione della radicalizzazione».A mo' di esempio, il professore ha raccontato il caso di due marocchini minorenni affidati a due diverse comunità: quando gli assistenti sociali hanno notato chiari segnali di radicalizzazione, non è stato possibile intervenire, nonostante si fossero rivolti sia alle forze dell'ordine sia al tribunale. Risultato: entrambi i ragazzi sono poi partiti per i teatri di guerra e uno dei due è morto, mentre dell'altro si sono perse le tracce. Oggi, insiste Vidino, «non esiste un interlocutore con cui discutere questi segnali e, non essendo stati riscontrati estremi per l'azione penale, le mani di tutti sono legate. E invece, è questa la fase in cui bisogna intervenire, con un supporto psicologico, per evitare la radicalizzazione». Riguardo alla contro narrativa, il messaggio di terrore e morte che arriva dal sedicente Stato islamico «va contrastato con una serie di messaggi sui social media e sulla rete. E occorre un'interazione con le comunità islamiche, le scuole, i servizi socio-sanitari». L'idea, conclude Vidino, è «che il lavoro di prevenzione della radicalizzazione non può essere demandato solo all'antiterrorismo, ci deve essere una divisione dei compiti, con un ruolo chiaro della società civile".Proselitismo nelle carceriDi recente, la vicenda di Anis Amri (il 24enne tunisino presunto autore dell'attentato a Berlino, ucciso in uno scontro a fuoco con la Polizia a Sesto San Giovanni), radicalizzatosi durante quattro anni di detenzione in 6 penitenziari siciliani, ha confermato il rischio che giovani detenuti siano indottrinati in carcere. Un recente rapporto del Dipartimento dell'ammistrazione penitenziaria ha reso noto che sono 645 le persone a rischio di radicalizzazione tenute sotto controllo a partire dal loro ingresso nelle carceri italiane: 373 sono ancora detenute (172 con "monitoraggio" in cella; altri 64 "attenzionate" e 137 "segnalate"); mentre altri 272 ex reclusi continuano ad essere tenuti d'occhio, anche dopo aver riacquistato la libertà a fine pena.