Quirinale. Draghi disponibile a restare premier, ma il gioco dei veti lo tiene in campo
Montecitorio, terza giornata di votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica: i grandi elettori votano nei cosiddetti "catafalchi" e depongono la scheda nelle urne, dette "insalatiere"
In un momento in cui si nasconde a malapena delusione mista a preoccupazione, Palazzo Chigi sceglie il silenzio più assoluto. E Mario Draghi riordina le priorità, mettendo al primo posto il bene che ritiene più insidiato dalla partita a scacchi dei partiti sul Colle: la stabilità e credibilità del governo, la continuità sino al 2023 del lavoro che ha iniziato poco meno di un anno fa.
L’unico spiffero che il capo del governo fa filtrare è la netta smentita della tesi secondo cui condizionerebbe la sua permanenza al governo all’elezione di questo o quel presidente della Repubblica. O la tesi secondo cui, indispettito da una mancata ascesa al Colle, lascerebbe l’incarico da premier. Niente di tutto ciò. La sua disponibilità a servire le istituzioni è intatta. La sensazione, piuttosto, è che i leader sinora abbiano utilizzato la sua pesante ombra per giustificare il lentissimo procedere dei negoziati per il Quirinale. E quindi è il momento di sgomberare ogni alibi dal tavolo: se a Draghi chiedono di continuare a fare il premier, lui farà il premier.
È un via libera ai leader per andare avanti nelle trattative su altri nomi. Ma è anche un test, sia per chi sinora ha "difeso" la sua candidatura al Quirinale sia per chi l’ha esclusa per timore del voto anticipato. Se davvero i capi-partito hanno un profilo capace di unire i grandi elettori, possono utilizzarlo sentendosi con le spalle coperte, perché una soluzione per l’esecutivo c’è, se vogliono. È un profilo di «responsabilità» che Draghi non ammette venga messo in discussione.
Resta una condizione, ma è una condizione politica oggettiva, condivisa da Salvini e Letta, da Renzi e Berlusconi: preservare l’unità dell’attuale maggioranza. E in funzione di questa prospettiva - evitare che sul nuovo inquilino del Colle vadano in frantumi le larghe intese - Draghi ha mosso i suoi ultimi passi.
A spalleggiarlo perché non si sciupi il lavoro dell’ultimo anno sono, in questa fase, non solo Letta e Renzi, ma anche Brunetta, Giorgetti, Di Maio. E i governatori, specie quelli del Nord. Un fronte che sinora ha evitato lo scontro muscolare tra i poli e che lavora sotto traccia per tenere l’ex capo della Bce in gioco in tutti gli scenari, quelli quirinalizi e quelli di governo. L’auspicio è che questa cintura di sicurezza funzioni almeno per garantire il completamento della legislatura, chiunque sia il nuovo capo dello Stato.
Certo a Palazzo Chigi non sfugge un dato: per ogni nome che sembra vicino a fare scatto matto, come un riflesso condizionato scatta un veto da parte di uno dei partiti di maggioranza. È un gioco che mantiene il premier in campo per il Colle - insieme al Mattarella-bis - in caso di perdurante stallo, o nel caso in cui un nome condiviso non superi il quorum dei 505 grandi elettori che scatta da oggi. Ed è proprio vedere che i partiti non fanno passi avanti reali ad alimentare un’amarezza che però Palazzo Chigi nasconde in ogni modo: la disponibilità del «nonno» Draghi al servizio nelle istituzioni è e resta un modo per aiutare a sciogliere nodi, non è un fatto di ambizione individuale.