Attualità

VITA DA SFOLLATI. Quelli che non mollano

dal nostro inviato Paolo Lambruschi venerdì 10 aprile 2009
Gente semplice per cose straordinarie. La città che resiste ha il volto sconosciuto di persone tornate a fare il proprio lavoro per cercare di portare la normalità, per cercare di reagire al terrore da sciame sismico che fa urlare a ogni scossa, alla vita stravolta che ricomincia in camper o in tenda. Da due giorni hanno riaperto alcune edicole. Una è quella di Tobia Taddei, 64 anni, che ha mandato la figlia, i nipotini e il genero al mare e poi ha riaperto l’attività in via Venezuela, rione Pettino. Tra gli scaffali si trova anche il nostro quotidiano. «Mi sono trasferito nel mio camper davanti a casa – dice l’edicolante –. Temo gli sciacalli. Con me sono rimaste mia moglie e mia mamma, che ha 94 anni ed è ammalata di Alzheimer. Se mi sposto rischio di ucciderla, continua a chiedermi dov’è casa sua. Ho voluto riaprire per riportare l’informazione nel quartiere. Ho ordinato al distributore i quotidiani, oggi arrivano i settimanali. Soprattutto, questo chiosco è il punto di riferimento per chi passa e vuole sfogarsi. Gente che ha perso tutto, che ha bisogno di parlare con qualcuno». Al Torrione, il quartiere ha preso il nome dalla colonna superstite dell’acquedotto romano. Ha resistito a parecchi terremoti, lunedì mattina non ce l’ha fatta. La farmacia comunale ha riaperto martedì, mercoledì si è presentata al lavoro Lucia Benedetti, la farmacista che ha visto due terremoti. «Sono originaria di Rocca di Mezzo, a 30 chilometri da qui. Nel 1980 mi trovavo a Avellino perché mio padre lavorava lì. E lunedì ho provato un grandissimo spavento. Ma poi il giorno dopo mi sono detta che dovevo reagire. L’azienda ha chiesto a chi se la sentiva in coscienza di tornare. Per me era importante ricominciare». Così Lucia è tornata dietro il bancone. Prima del sisma usava per la trasferta un appartamento in un condominio del rione, ora evacuato. «Quando ho visto il centro mi sono sentita morire, oltre alle vittime è stato raso al suolo un patrimonio artistico incalcolabile. Anche per questo dobbiamo fare tutti il nostro dovere». Ma cosa acquistano gli sfollati? «Non pensate a sonniferi o antidepressivi. A parte i malati cronici, la gente comune prende le medicine che non ha potuto prendere durante la fuga. Farmaci per la pressione o per il colesterolo, al massimo le aspirine». Daniele De Salvo ha 26 anni ed è uno dei 120 netturbini aquilani. Vive a Collebrincioni sfollato in tenda con la famiglia. Doveva fare il turno delle quattro di lunedì mattina. «Mi sono presentato 24 ore dopo e ho preso servizio. C’erano tutte le macerie in centro, i campi allestiti da pulire. Siamo in sei, molti miei colleghi hanno avuto lutti in famiglia. Altri hanno messo al sicuro i figli e torneranno». Nel frattempo Daniele porta i sacchi neri nelle tendopoli e smaltisce i rifiuti nella discarica di Bazzano. Lavoro oscuro di resistenza, ma necessario. «Dobbiamo tornare tutti a fare il nostro dovere. Non capisco chi non lavora in questo frangente». Davanti alla caserma regionale della Finanza si mangiano i panini più buoni della città all’Oasi delle delizie. Due varietà: tonno e maionese, oppure tonno e sottaceti. «Non avevo altro – si scusa Abel – e non so quando potrò rifornirmi». Ha costruito e aperto il chiosco in legno a luglio. Una piccola imperfezione tra vetro e assi nelle finestre ha attutito la botta come un elastico e ha salvato il bar. Abel indossa una maglietta antirazzista, è all’Aquila dal 1992, è un profugo di origine eritrea, ha 27 anni, una laurea in lingue e vive e lavora con sua mamma. Insieme ora si sono spostati nella tendopoli del centro, a Piazza d’Armi. «Ho aperto quando l’acqua è tornata limpida. Viene tanta gente a bere un caffè. Ho ritrovato i vecchi clienti. Bisogna pur vivere». La loro piccola resistenza alla paura e al sisma l’hanno fatta anche Luca, Giorgio e gli altri chierichetti della parrocchia di San Panfilo a Villagrande, frazione aquilana, tutti sfollati. Mentre il parroco don Danilo, andava alla sede della Caritas a ritirare i paramenti sacri gli hanno chiesto di tenere lo stesso ieri sera la cerimonia della lavanda dei piedi che avevano provato. E chi può dir loro di no? Anche i santi resistono. Lunedì mattina alle quattro, su insistenza dei vecchi parrocchiani, don Danilo ha dovuto mettere la statua di Sant’Emidio, protettore dei terremoti, davanti alla chiesa, che per l’abside affrescato da Saturnino Gatti è detta la Sistina dell’Abruzzo. La chiesa, che risale al Mille, è illesa e tra poco riaprirà.