I roghi di Palermo. Quella fuga notturna per scampare alle fiamme
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«Dove ci sono le fiamme c’è, o dovrei dire c’era, casa mia». La signora con i capelli raccolti guarda le fiamme che circondano la collina di Pizzo Sella, affonda la faccia tra le mani, in una versione discreta del pianto più sconsolato. Non c’è tempo da perdere se sei, tuo malgrado, protagonista di una catastrofe. Un fuoco apocalittico devasta Palermo. Un incendio che ha bruciato la città in diversi punti. Ma è diverso se, per una volta, vivi dentro la cronaca e la vedi mentre ti viene addosso, quando, alle quattro del mattino, suona il citofono. Una voce gentile e sbrigativa intima: «Carabinieri, dovete lasciare la casa, vi scortiamo noi».
Un attimo che spalanca abissi di confusione. Come abbandonare la nave, in mezzo alla tempesta. Le domande si affollano: lo spazzolino da denti sarà davvero utile? Quali medicine prendere e quali sono meno necessarie? Come non dimenticare gli oggetti importanti? I minuti concessi si consumano in fretta. I ragazzi in uniforme che sono lì per proteggere, devono salvare altri. Devi sbrigarti. E poi un incubo tridimensionale, con gli sfollati tutti in fila, dentro la macchina e il riflesso del rogo che rende l’aria una compiuta metafora dell’inferno. E quella donna, mai vista, né notata, con la faccia tra le mani, con il suo pianto che non vuole disturbare.
L’incubo di Mondello, regno dell’estate, il dramma delle sue colline, tra Pizzo Sella e Capo Gallo, ha avuto inizio lunedì pomeriggio con ampie lingue di fuoco. Il consueto tam tam di whatsapp ha mobilitato i residenti, secondo l’organizzazione collaudata di chi conosce i rischi delle bollenti stagioni siciliane. Compiti da formicaio. Uno prende i secchi. Uno attacca la pompa. Un altro si occupa del rubinetto. Un altro ancora regge la scala di colui che, materialmente, dirige il getto sui focolai. Ma il fumo e il cielo rosso hanno preso il sopravvento, avendo facilmente ragione, da cataclismi professionali, su quei volenterosi dilettanti. Ecco perché il ronzio dell’elicottero anti-incendio veniva salutato come la carica del settimo cavalleggeri, in certe vecchie pellicole ormai malconce.
Il lunedì si chiude con l’attesa di una notte gravida di paure. Se c’è un dettaglio che rimane impresso in una notte così è dato dalle facce che incontri. Il volto terrorizzato di chi scappa. I lineamenti induriti di chi, in uniforme, combatte la sua ennesima battaglia. Gli occhi di un tecnico del corpo forestale che lotta, scintilla per scintilla, e poi si abbatte sul ciglio di una strada, per concedersi l’intervallo di un sorso d’acqua, prima di riprendere. Tutti giù, evacuati, a fissare l’ombra della propria abitazione sulla collina. A scommettere con se stessi su quanto potrà resistere. A fare il tifo per la casa che hai dovuto lasciare, come una nave che sta colando a picco, pregando per le sue memorie, per la sua storia, per i suoi angoli di felicità. L’impasto tra il buio denso e le lingue rossastre, con il fumo che invade i polmoni, è il centro del terrore. E attendere che passino le ore, sperare nell’aumento dei soccorsi, sapendo che il fronte del fuoco è vasto e che nessuno si sta risparmiando, perché tutti sono impegnati.
Ecco l’alba che regala la sua luminosa speranza. Forse i focolai si vanno spegnendo, forse no. Forse la casa è ancora in piedi, forse, chissà. Torna la prima luce con la voglia di consegnare al vicino qualcosa di te che non scorderà mai, va bene anche un incoraggiamento nell’ora più calda. Magari, tra un po’ sarà il momento di risalire, di guardare quello che c’è da ricostruire. E di sperare.