Il "dopo di noi". Madre e marito che uccidono: quei drammi della solitudine
Lo stabile di Orbassano, alle porte di Torino, dove si è consumata la tragedia (Ansa)
Solitudine. È il nome della malattia che nei due ultimi giorni ha armato la mano di una madre e di un marito, diventati – per pietà – assassini delle due persone che amavano di più. Il primo straziante caso è avvenuto a Orbassano, provincia di Torino, dove Maria Capello, 85 anni, si è stordita con psicofarmaci per trovare il coraggio di uccidere a martellate la sua amata figlia, nata 44 anni fa con una grave cerebropatia e da allora accudita con amore. «Non ce la faccio più – ha spiegato la donna in un biglietto lasciato sul tavolo della cucina e trovato dai Carabinieri –, non voglio che Silvia soffra ancora, il mio è un gesto di pietà». Le stesse parole singhiozzate dal marito quando è toccato a lui, la mattina dopo, scoprire il corpo senza vita della figlia e, accanto, la moglie svenuta. La sera prima era andato a letto presto, senza presagire nulla.
Anche la scelta dell’arma, un martello abbassato più volte sulla testa della figlia disabile, racconta la disperazione ma anche la determinazione di questa madre. Ora è ricoverata sotto choc all’ospedale San Luigi, denunciata dai carabinieri per omicidio. Chissà se la dose di psicofarmaci ingerita le serviva solo per stordirsi o se invece la donna non sperasse di seguire così la figlia nel loro ultimo viaggio insieme. Certamente il suo è un dramma della solitudine, sebbene durante la settimana Silvia fosse ospite della comunità 'Le Nuvole' di Collegno, che si prende cura dei disabili e dà sollievo alle famiglie. Solo nel fine settimana tornava a casa, e proprio in questa occasione la madre ha agito, spinta da una disperazione purtroppo non isolata. In tanti si interrogano infatti sul 'dopo di noi', al di là della legge approvata: chi si curerà di nostro figlio quando non ci saremo più? Riceverà amore? Come resisterà, lui così fragile, in un mondo per forti? Domande che, ha testimoniato il marito, la assillavano da sempre. La politica si interroga molto sul come morire e molto poco sul come permettere di vivere, la mancanza di risposte provoca tragedie come questa.
E come quella accaduta ieri a La Spezia, dove Giuseppe Gianfranceschi, 75 anni, ex carrozziere stimato da tutti, ha ucciso con un colpo di pistola la moglie Rosanna Gentilini, anche lei 75 anni, poi si è tolto la vita con la stessa arma. Entrambi erano molto malati e incapaci di affrontare da soli il peso di una sofferenza che schiaccia: lei era colpita dal morbo di Alzheimer, lui da un tumore in stato avanzato. Per poter compiere il suo piano, ha atteso che la badante, una donna albanese ora sotto choc, andasse in cucina a preparare il pranzo, poi ha fatto due volte fuoco con l’arma, risultata regolarmente detenuta. La coppia aveva un figlio, che si è subito recato sul luogo della tragedia. Anche in questo caso è facile pensare che l’uomo, da tempo sotto terapia per il cancro, si chiedesse chi avrebbe potuto prendersi cura della moglie dopo la sua morte. Anche lui piegato dalla solitudine, in una società che vede ma non guarda, sente ma non ascolta, incapace ormai di fare rete. Lo vedevano tutti mentre spingeva la carrozzina della moglie nel portarla in giro, ma le fatiche quotidiane dentro le quattro mura domestiche non le vedeva nessuno. Da anni i governi promettono interventi a favore dei caregiver (i parenti che non possono lavorare perché devono dare assistenza ai propri cari), ma nulla poi accade.
«Sono Lucia Sellitti – ci ha scritto, tra gli altri, una testimone diretta – mamma di una ragazza disabile di 28 anni affetta da tre malattie rare. Ho passato e passerò tutta la vita ad accudire la mia bambina, che non è autosufficiente e non si può autodeterminare». Tra le tante cure, «ogni giorno devo stare attenta a farle bere almeno 3 litri d’acqua per evitare la disidratazione che le sarebbe fatale. La mia vita è la sua vita! Ma tutto quello che faccio per lei lo rifarei altre mille volte, perché è la mia gioia!». Poi prosegue con l’appello rivolto ad Avvenire: «Vi chiedo di soffermarvi su un problema che è mio ma anche di tutti i caregiver che spendono la loro vita accanto a un malato: nessuno riconosce il loro lavoro perché non è retribuito, dunque non potranno beneficiare di un sostegno per la vecchiaia, eppure hanno lavorato senza sosta, senza ferie, senza un giorno di vacanza, senza mai riposo». Un lavoro prestato al posto dello Stato, ingrato. Lucia Sellitti chiede che al più presto la legge si traduca in fatti concreti: «L’angoscia ci pervade quando pensiamo al 'dopo di noi', cioè il pensiero di dover abbandonare i nostri figli ad altri quando non ci saremo più».