«Quel che mio è tuo». Anzi, no: «Quel che è mio è mio, quel che è tuo è tuo». Davanti al sindaco o al parroco, poco importa: oggi gli sposi nella maggioranza dei casi scelgono la separazione dei beni. Per la precisione, il 62,7% dei matrimoni celebrati nel 2008 sottostanno al regime della separazione; solo quattro anni fa, nel 2004, la percentuale era decisamente più bassa, arrivando al 56%. La comunione dei beni, dunque, ha perso terreno dal 1975, quando fu introdotta in via automatica nel matrimonio come forma di tutela del coniuge economicamente più debole. L’Italia comunque, anche sul fronte del regime patrimoniale degli sposi è "federalista": ci sono regioni come Valle d’Aosta, Marche e Piemonte in cui la quota delle nozze in regime di separazione dei beni supera il 70%, e altre come la Sardegna, dove la comunione dei beni è ancora in maggioranza (50,6% contro il 49,4 di separazione).Ma perché gli sposi oggi scelgono la strada di mantenere i patrimoni separati? I motivi sono più d’uno: la semplicità di alcune operazioni come la vendita di beni (automobili e appartamenti, ad esempio). Poi l’età più alta dei coniugi, ciascuno dei quali in genere ha già avviato una propria attività professionale preferendo dunque separare, anche per motivi precauzionali, «quel che è mio» da «quel che è tuo». E, infine, in tanti casi può esserci anche una sorta di riserva mentale: se le cose tra marito e moglie non dovessero andare bene, nel momento della separazione non ci sarà da accapigliarsi sulla casa al mare o sul servizio d’argento... «Nella separazione patrimoniale c’è un dato oggettivo di semplicità – spiega l’avvocato matrimonialista Emanuela Colombo, con studio a Milano –, sia nella gestione del quotidiano sia negli acquisti e nella vendita di beni. La separazione dei beni è anche utilizzata quando i due coniugi hanno già un patrimonio personale alle spalle, cosa che oggi capita spesso visto che ci si sposa sempre più tardi. Ma a mio avviso dietro questa scelta esiste anche un criterio di precarietà: se le nozze dovessero naufragare, è più chiaro cosa appartiene all’uno e cosa all’altra»: davanti al giudice, in altre parole, non serviranno battaglie all’ultimo sangue per dimostrare che una casa o un mobile è dell’uno o dell’altra. Senza voler generalizzare, in questi casi è come se il «per sempre» tipico del matrimonio fosse messo un po’ da parte con un «per ora» che metta in salvo proprietà e patrimoni personali. «La mia opinione è che la comunione dei beni – continua Emanuela Colombo – sia il regime più conforme al matrimonio. Anche perché il rischio è di passare di precarietà in precarietà: la separazione dei beni può essere fonte di contrasti e sperequazioni tra i coniugi». Che ci sia una tendenza sempre più marcata a scegliere la separazione dei beni lo conferma anche don Francesco Vitari, parroco in una frazione di Segrate (Milano) e responsabile nazionale di Incontro Matrimoniale: «Sì, nella mia parrocchia ormai quasi tutti gli sposi chiedono la separazione dei beni. E mi spiegano che lo fanno per evitare problemi al partner in caso di attività professionali o imprenditoriali già avviate. Sotto sotto, però – azzarda don Vitari – ci leggo anche una sorta di paura di entrare in una comunione totale, dunque anche patrimoniale, con l’altro. Sono coppie che arrivano tardi al matrimonio, dopo due o tre anni di convivenza, e mi pare che a volte manchi un po’ di fiducia in se stessi e nell’altro ». C’è da aggiungere che spesso regna la confusione e la disinformazione sulle reali conseguenza dell’uno o dell’altro regime patrimoniale. Non è vero che nella comunione dei beni non si possano acquistare beni separatamente, né che i guai finanziari di uno debbano travolgere necessariamente l’altra... Forse, allora, sarebbe opportuno che nei corsi di preparazione al matrimonio (sia in chiesa che in Comune) si riprendesse in mano il Codice civile...