èvita. Quando la bioetica diventa campo di battaglia
Non può passare come una provocazione o, al contrario, un «puro esercizio di logica» la difesa dell’infanticidio argomentata da due studiosi italiani – Alberto Giubilini e Francesca Minerva – nella rivista The Journal of Medical Ethics. I due bioeticisti chiamano «aborto post-nascita» l’omicidio dei neonati perché, così come i feti, i bambini nati da poco non sarebbero persone e non hanno quindi diritto alla vita. Se i primi si possono abortire, si dovrebbe poter sopprimere pure i secondi, usando lo stesso termine (aborto), perché «omicidio» è riservato alle persone. Conforta la reazione di disgusto e ripugnanza, dilagata soprattutto in Rete, così forte che gli editori della rivista, Julian Savulescu e Ken Boyd, e gli autori stessi hanno cercato, in qualche modo, di difendersi.
Savulescu, che da sempre sostiene tesi analoghe a quella dell’articolo, ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui giustifica la pubblicazione ma che, a scanso di equivoci, inizia così: «Sono personalmente contrario alla legalizzazione dell’infanticidio». L’editore associato Boyd ha spiegato di non condividere le conclusioni dell’articolo, precisando addirittura che quei due bioeticisti lui non li conosce neppure. Mai visti. E persino i due studiosi hanno tentato di minimizzare quel che loro stessi hanno scritto. In una lettera aperta protestano che il loro è solo «un puro esercizio di logica», niente di più lontano da una proposta di legge in materia. Dichiarazioni che suonano francamente patetiche e inadeguate. Autori ed editori non negano la tesi del saggio – l’infanticidio è accettabile per le stesse ragioni per cui lo è l’aborto – e si dissociano solamente dalla sua legalizzazione (gli autori non in modo esplicito). Ma se è tutto tanto logico, razionale, consolidato nella letteratura, e soprattutto così robustamente argomentato come ripetono continuamente, perché non se ne può giustificare la messa in pratica? E se editori e autori sono contrari all’infanticidio, perché non l’hanno precisato chiaramente in una nota al testo?
Forse perché quel saggio rivela realmente il loro orientamento culturale. Nel testo leggiamo infatti che «lo status morale di un neonato è equivalente a quello di un feto nel senso che entrambi mancano di quelle caratteristiche che giustificano l’attribuzione del diritto alla vita di un individuo. Sia un feto sia un neonato sono certamente esseri umani e potenziali persone, ma nessuno dei due è "persona" nel senso di un "soggetto di un diritto morale alla vita". Noi chiamiamo persona un individuo che è capace di attribuire alla propria esistenza (almeno) alcuni valori di base come il ritenere una perdita l’essere privati della propria esistenza. Ciò significa che molti animali non umani e individui umani mentalmente ritardati sono persone, ma che tutti gli individui che non sono nelle condizioni di attribuire alcun valore alla propria esistenza non sono persone. L’essere semplicemente un essere umano di per sé non è una ragione per attribuire a qualcuno un diritto alla vita».
Difficile pensare che chi si esprime in questo modo – e chi pubblica, ritenendo queste idee utili al progresso dell’umanità – non condivida quanto formulato. Con tutte le conseguenze del caso, infanticidio compreso. A questo punto autori ed editori dovrebbero chiarire se dissentono o meno dalle definizioni e da certe argomentazioni dell’articolo: è inevitabile dedurne la plausibilità dell’infanticidio, indipendentemente dal fatto che se ne discuta o meno la traduzione in legge. Ma la questione non riguarda solo loro. Investe tutto quel mondo, specie accademico, che si occupa di queste tematiche: i due studiosi non vengono dalla luna, ma sono laureati e dottorati in prestigiose università italiane – Milano, Bologna – e Savulescu ha già collaborato con l’università Vita & Salute del San Raffaele.
Ci sono domande che urgono. Mi chiedo, e chiedo a chi fa parte del mondo della bioetica: riflettere sulla vita umana, sia pure in ambito accademico, può essere solo un «puro esercizio di logica»? Cosa pensiamo di espressioni tipo «aborto post-nascita»? Siamo disposti ad accettarne il diritto di cittadinanza nel lessico della bioetica? E soprattutto, in nome della libertà di pensiero e di espressione, siamo disposti a riconoscere che alcuni orientamenti e definizioni, come quelli espressi nel saggio di cui si sta parlando, possono portare a conseguenze sociali ed antropologiche devastanti, come ben dimostrato nell’articolo? Insomma, siamo disposti a interrogarci sul ruolo e il compito della bioetica?