Attualità

La storia. Quando i profughi erano i friulani: «Poco avvezzi al lavoro»

Francesco Riccardi giovedì 28 settembre 2017

Dopo la disfatta di Caporetto, il 24 ottobre 1917, centinaia di migliaia di donne, bambini e anziani scapparono dalle zone di guerra invase dall’esercito austro-ungarico. Furono poi "ricollocati" in diverse regioni d’Italia, non senza difficoltà e dovendo spesso scontare l’ostilità dei fratelli italiani di altre zone.

È solo una piccola vicenda di paese. Emblematica, però, di come la storia si ripeta seguendo spesso schemi analoghi, mettendo a nudo le medesime paure e diffidenze degli uomini, per aprire poi inaspettati orizzonti di bene.

LA GRANDE FUGA La Storia con la maiuscola è quella che, giusto cento anni fa, nell’ottobre del 1917, registra la disfatta di Caporetto e la conseguente penetrazione in territorio italiano delle truppe austro-ungariche e tedesche, provocando la fuga di una massa consistente di civili dalle province di Udine, Treviso, Venezia. Almeno 300mila persone, ma c’è chi arriva a stimarne il doppio; in ogni caso un esercito di donne, bambini e anziani che scappano dalle devastazioni della guerra, dalla fame e dalla paura delle violenze degli occupanti. Sì perché, prima delle 'marocchinate' nel secondo conflitto mondiale, sono stati austriaci e tedeschi a macchiarsi di stupri di massa nei confronti di donne italiane. Tanto che a Portogruaro, su sollecitazione dell’allora monsignore Celso Costantini, venne aperto un orfanotrofio per raccogliere le centinaia di figli nati dalle violenze e rifiutati dalle famiglie. La fuga dei profughi italiani in quell’autunno è difficile sia per le condizioni delle strade di allora, sia per l’ostilità che incontrano: alcuni, cercando di evitare i ponti e le vie principali, muoiono annegati nei fiumi in piena. Si accampano dove possono, finché il governo del Regno d’Italia non decide di farsene carico, promuovendo un piano di ricollocamento in varie regioni. Non senza difficoltà, sia perché questi profughi sono il simbolo della sconfitta, sia soprattutto per la diffidenza delle popolazioni che dovrebbero ospitarli, tanto che alcuni arrivi vengono organizzati di notte per evitare proteste.

L’ARRIVO IN PAESE E qui comincia la storia, quella con la minuscola, che però si fa emblematica. Siamo a Bresso, cittadina ai confini di Milano, un secolo fa solo qualche villa di conti, alcune piccole imprese e una serie di cascine. Appena duemila anime strette intorno alla chiesa dedicata ai Santi Nazaro e Celso. Ed è proprio l’attuale prevosto, don Angelo Zorloni, ad aver ritrovato nel Chronicon della parrocchia le annotazioni dell’arrivo in Paese, alla fine del 1917, di « 158 profughi provenienti dalle zone di Cividale e dalle terre oltre il Natisone ». Il parroco di quel tempo, don Enrico Invernizzi, per descriverli usa poche parole assai significative: « Eccettuati coloro che provenivano dai paeselli montani di lingua slava, gli altri avevano tutti sentito l’influsso dei paesi invasi dall’elemento militare. Poca religiosità, costumi rilassati. (…) La popolazione di Bresso si industriò sempre di assistere questi poveri profughi, i quali, invero, non erano tanto abituati al lavoro ». Una serie di giudizi, o forse dovremmo dire pregiudizi, di quelli che ancora oggi marchiano i profughi: poca voglia di lavorare, costumi e religiosità diversi dai nostri e 'rilassati'. Sarà che per i lombardi il lavoro è religione e la religione un lavoro da fare, ma certo leggere la descrizione dei friulani come gente di poca fede e non avvezza a darsi da fare lascia perplessi. Forse tra le righe si può leggere qui la eco di una velata polemica per quelle poche lire che il Regno d’Italia assegnava ai profughi per la loro sopravvivenza e che li teneva lontani dal ricercare un lavoro purchessia. Anche se, invece, in altre zone d’Italia in quello stesso periodo si lamenta la 'concorrenza sleale' che i profughi veneti e friulani facevano alle mondine e agli altri braccianti a giornata, 'rubando loro il lavoro'.

Quasi le stesse parole scagliate oggi come pietre contro gli immigrati che 'portano via il posto ai giovani' e ai richiedenti asilo 'mantenuti con le nostre tasse'. Nelle sue annotazioni, l’allora parroco don Invernizzi – che con il coadiutore don Giuseppe Pozzi si prodigò molto per l’accoglienza di questi sventurati, pari addirittura al 7% della popolazione – in realtà registra anche quanto di buono, oltre ai bressesi, fanno pure i profughi. « Vi fu però qualche famiglia buona come i Comugnero da Cividale – scrive – , i cui due figli erano iscritti e partecipavano alla presidenza del Circolo Giovanile Cattolico della Parrocchia del duomo di quella città ». E proprio quei « profughi Comugnero richiamano la costituzione in parrocchia nostra della G.C.I. (Gioventù Cattolica Italiana) di cui il fratello minore, Carlo Dino, durante la sua permanenza tra noi, fu segretario prima e poi presidente zelante e attivo ». Fondato da un gruppo di nove giovani nel 1916, appena un anno prima dell’arrivo dei 'foresti' friulani, quel circolo della Gioventù Cattolica di cui un profugo fu segretario e presidente attivo, infatti, fu uno dei principali soggetti promotori, assieme all’impegno di tante famiglie locali, della nascita nel 1932 dell’oratorio San Giuseppe, ancora il più grande della città. Di quella Bresso che poi, negli anni ’60 del Novecento è passata da 5mila fin quasi a 30mila abitanti per l’immigrazione dal Mezzogiorno, e ancora dal Veneto, arricchendosi, oltre che di persone, energie e sensibilità, anche di altre due chiese, altrettanti oratori (e associazioni, società sportive, volontariato ecc.). Chiese e case parrocchiali, nelle quali da 20 anni vengono ospitati alcuni richiedenti asilo, e ancora oratori nei quali oggi giocano e pregano assieme bambini di 30 nazionalità diverse (e di differenti abilità e persino di altre fedi).

LA LEZIONE DELLA STORIA La storia si ripete, dunque, con gli stessi pregiudizi e le medesime paure nei confronti di chi viene 'da fuori', siano italiani d’altrove o stranieri in fondo cambia poco. Se però si riesce a spingere lo sguardo oltre l’orizzonte di un presente diffidente, si può scorgere come l’accoglienza, l’apertura all’integrazione, la disponibilità reciproca a contaminarsi siano sempre foriere di crescita e progresso comune. Don Angelo allarga le braccia e lo spiega così: «Dice la lettera agli Ebrei: 'Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli'. Anche a Bresso è successo. E può accadere ancora».