Se il termine di paragone fosse l’
annus horribilis 2011, quello della "scoperta" dello spread e dell’attacco all’Eurozona, nessuno avrebbe dubbi. «Il miglioramento nel tempo è stato impressionante ». L’ha detto Mario Draghi ieri a Davos e chiunque operi sui mercati non potrebbe non sottoscrivere queste parole, basta vedere il recupero delle Borse nell’ultimo biennio e la contemporanea riduzione dei tassi d’interesse. Il problema però è il futuro prossimo, che forse è già arrivato come testimonia la caduta di ieri dei listini del Vecchio continente, la risalita dei differenziali e, soprattutto, il ritorno di fiamma degli investitori per il Bund tedesco, bene rifugio per eccellenza negli anni della speculazione. Ciò che preoccupa dunque è quel che abbiamo davanti, che per il numero uno della Bce è una ripresa «ancora fragile, debole e mal distribuita». La sensazione è che i governi abbiano fatto sì le riforme, ma solo quelle dettate dall’austerity, non quelle necessarie ad aprire una nuova fase di crescita. Così Draghi rende onore al merito di Italia e Spagna, i Paesi più colpiti dalla crisi del debito sovrano, ma sembra non accontentarsi. Prima di tutto perché la mossa decisiva, lo dice en passant , l’ha fatta proprio l’Eurotower nell’estate 2012. Fu quel «
whatever it takes » pronunciato alla City, a tranquilizzare definitivamente i mercati: la Banca centrale europea avrebbe fatto «tutto il necessario» per mettere in sicurezza l’euro dagli scossoni dei mercati. Dopo quella promessa, ha ricordato, si sono praticamente dimezzati i rendimenti sui titoli di Stato di Madrid e Roma. Sul percorso dei prossimi mesi c’è un’incognita da affrontare, che preoccupa da vicino il nostro Paese: la deflazione, la caduta dei prezzi, sinonimo di sfiducia generalizzata nella ripresa. Non si compra più e si tende a rinviare i futuri acquisti, in attesa di ulteriori riduzioni dei costi: così l’economia si avvita su se stessa, fino ad ingessarsi definitivamente. Ma è davvero un’ipotesi concreta? Draghi ha rassicurato, dicendo di «non vedere deflazione nell’area euro, ma siamo ben consapevoli che più dura questo periodo di bassa inflazione, maggiori sono i rischi».L’altro spauracchio rimane ovviamente la disoccupazione, il fenomeno che davvero più preoccupa le istituzioni comunitarie, a livello politico e finanziario. L’alta percentuale dei senza lavoro «è solo in parte dovuta alla recessione», perché «una parte è dovuta» invece «alle distorsioni che vanno affrontate con riforme strutturali. È il caso della disoccupazione giovanile: c’è qualcosa nella normativa del lavoro che discrimina» le nuove generazioni.