Il Piano di rilancio. Progetto giovani per rialzare l'Italia
Roma Tre parole. Giovani. Rinascita. Crescita. Mario Draghi le ha ripetute nei 'faccia a faccia' con i partiti. Per spiegare che c’è una sola strada per riaccendere i motori del-l’Italia e strapparla così al pantano dove è stata fatta sprofondare da anni di cattiva politica: investire sulle giovani generazioni legando una visione di lungo periodo con un’azione immediata. Tutti i leader politici che si sono seduti davanti all’uomo che guiderà il governo hanno capito quanto sia fermamente deciso a intervenire sulla bozza dell’esecutivo Conte II e a rivedere alcuni capitoli del Next Generation Eu mettendo al centro tematiche precise: giovani, scuola, università, ricerca, formazione, competenze digitali.
Un cambio di rotta netto nell’azione del governo che prende forza nelle riflessioni pubbliche e in quelle più private. «I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire, ma non bastano. Ai giovani bisogna dare di più. Perché i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e i loro redditi futuri». Parole forti. Già ascoltate al Meeting di Rimini, mesi fa. Quasi un manifesto politico dal titolo fin troppo chiaro: si riparte non con i bonus, ma con il lavoro qualificato, con la professionalità, con l’eccellenza. Draghi ha ascoltato la politica e si è appuntato proposte e riflessioni. Un ministero ad hoc per le politiche giovanili? Un rilancio di 'Garanzia giovani', il programma di iniziative pensato dall’Ue per dare forza al lavoro degli 'under 30'? Le idee si accavallano. Draghi ha le sue: più corsi di formazione, praticantati, finanziamenti per start up, accesso al credito meno complicato. E spiega: dobbiamo agire in fretta. Il sottoutilizzo delle risorse dei giovani riduce in vari modi la crescita: abbassa la probabilità di nascita di nuove imprese, determina a lungo andare il decadimento del capitale umano. «Oltre a ferire l’equità, costituisce uno spreco che non possiamo permetterci».
Le idee si legano ai numeri. E anche quelli relativi agli investimenti sulla scuola impongono un deciso cambio di rotta. Secondo la World Bank, l’Italia nel 2005 investiva oltre il 9% della spesa pubblica in istruzione. Oggi - nonostante la spesa pubblica sia cresciuta in questi ultimi 15 anni - siamo sotto l’8%. Francia e Spagna sono al 10, la Germania all’11 e la Svezia al 16. In valore assoluto il nostro Paese investe circa 60 miliardi di euro ogni an- no, la Francia 120, la Germania 150. E le cose non migliorano se analizziamo gli stipendi degli insegnanti: il compenso medio annuo lordo di un prof di una scuola secondaria in Italia (con almeno 15 anni di esperienza) è di poco superiore ai 30mila euro, in Germania siamo sopra i 70mila. Numeri che fanno pensare alle parole di Piero Calamandrei, giurista e politico, tra i fondatori del Partito d’Azione e membro della Costituente: «Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento, della magistratura e della Corte Costituzionale».
Draghi riflette su due emergenze. O meglio su una prima emergenza resa ancora più drammatica da una seconda. Istruzione e coronavirus. Ci sono frasi già ascoltate. Già messe nero su bianco. «Privare un giovane del futuro è una delle formi più grave di disuguaglianza». E oggi un futuro i nostri giovani non ce l’hanno. Anzi il debito senza precedenti creato con la pandemia dovrà essere ripagato principalmente da loro e la colpa più grave della politica è non aver fatto i passi giusti per metterli almeno nella condizione di riuscirci. Sono ancora i numeri a fotografare l’emergenza. Negli ultimi dieci anni 250mila giovani italiani hanno preferito emigrare. E i costi di questa fuga dei cervelli sono mostruosi: se avessero lavorato in Italia avrebbero prodotto un tesoretto di 16 miliardi di euro. Dal 2010 la disoccupazione giovanile ha una media del 35 per cento.
La media europea è appena sopra il 20. Nel 2019, la povertà assoluta in Italia colpisce 1 milione e 137mila minori. Ancora dati, per riflettere. E per correggere la rotta. Nel 2019 26 giovani su cento tra i 18 e i 24 anni non lavoravano, non studiavano e non frequentavano un corso di formazione. La media dei Neet nei Paesi Ocse è nettamente più bassa: si ferma al 14 per cento. La rinascita dell’Italia passa dai giovani.
Per Draghi riuscire nella sfida impossibile è quasi una ossessione e quella parola – giovani – aveva riempito l’intervento-manifesto nell’ultimo agosto al Meeting di Rimini. Giovani, giovani, giovani. Quella parola viene ripetuta dodici volte. E fa pensare che tra le 464 pagine del testo del governo Conte lo stesso termine compaia una sola volta, all’interno della sezione dedicata agli investimenti in istruzione e ricerca (dove risultano stanziati solo 1,5 miliardi per tutto il comparto). È il momento di voltare pagina. Perché l’Italia è tra gli Stati membri che finora meno hanno realizzato politiche efficaci per rafforzare i percorsi formativi e professionali. Perché l’Italia non si è mostrata capace, nemmeno nella stagione del Covid, di prendere i giovani per mano. E di assegnare all’educazione il ruolo fondamentale per gestire cambiamento e incertezza nei loro percorsi di vita.
L’offensiva di Draghi premier sta per entrare nel vivo. Ci saranno progetti e riforme per una ripartenza capace di rispondere alle attese delle nuove generazioni. Ma anche che tragga forza dall’apporto delle nuove generazioni. Il (quasi) capo del governo ci crede. Crede nei giovani. E pur non essendo social, pur non avendo Facebook, Twitter e Istagram, le parole ripetute agli studenti dell’Università Cattolica, nell’ottobre del 2019, non sono di circostanza: «Non dubito che incontrerete ostacoli notevoli. Ci saranno errori e ritirate, perché il mondo è complesso. Spero però che vi possa essere di conforto il fatto che nella storia le decisioni fondate sulla conoscenza, sul coraggio e sull’umiltà hanno sempre dimostrato la loro qualità».