Mafia. Pm chiedono condanne per Mancino, Dell'Utri, Mori e i boss di Cosa nostra
La Procura di Palermo ha chiesto la condanna a sei anni di carcere per l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino imputato di falsa testimonianza al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L'accusa ha chiesto 15 anni di reclusione per il generale Mario Mori, considerato il "protagonista assoluto" della trattativa, 12 anni per il generale Antonio Subranni e il colonnello Giuseppe De Donno. Dodici anni anche per l'ex senatore di FI Marcello Dell'Utri. La pena più alta - 16 anni - è stata chiesta per il boss mafioso Leoluca Bagarella (nella foto in alto) mentre 12 anni sono stati chiesti per il boss Antonino Cinà. Non doversi procedere per il boss Giovanni Brusca per prescrizione, in forza della legge sui pentiti L'accusa ha chiesto la condanna a 5 anni per Massimo Ciancimino per l'accusa di calunnia e il non doversi procedere per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, perchè prescritto.
Si è chiusa così la requisitoria del processo sulla presunta trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra sicialiana. "Risulta provato che nel 1994, con il decreto Biondi e la riforma della giustizia in Commissione, Marcello Dell'Utri ha ottemperato alle sollecitazioni di Vittorio Mangano incaricato da Giovanni Brusca, dando seguito all'accordo con Cosa nostra: benefici e garanzie in cambio dell'interruzione della strategia stragista. La carica ricattatoria di Dell'Utri è stata recepita dal capo del governo di allora, Silvio Berlusconi". Così il pm Francesco Del Bene nella sua requisitoria al processo sulla trattativa Stato-mafia, giunta alle battute finali. Lo 'stalliere di Arcorè Vittorio Mangano fa nuovamente il suo ingresso al processo sulla trattativa tra Stato e mafia. "La presenza di Vittorio Mangano ad Arcore, mafioso del mandamento di Porta Nuova, per il tramite di Dell'Utri, rappresenta la convergenza di interessi tra Berlusconi e Cosa nostra", ha detto il pm Francesco Del Bene durante la requisitoria al bunker del carcere Ucciardone.
Il boss di Cosa nostra Bernardo Provenzano "non poteva essere catturato perché l'eventualità di una sua collaborazione avrebbe scoperto le carte sparigliato gli accordi e comportato per i Carabinieri del Ros la possibilità che il loro comportamento sciagurato e illecito venisse scoperto dall'autorità giudiziaria e dall'opinione pubblica". Lo ha detto il pm Nino Di Matteo, nel corso della sua requisitoria, tornando a parlare della mancata cattura del capomafia di Corleone nel 1995 a Mezzojuso, nel palermitano. Una vicenda per la quale il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono stati assolti in via definitiva. Mori è adesso sotto processo per la trattativa tra Stato e mafia con l'accusa di minaccia a corpo politico dello Stato.
"Questo era il motivo per il quale non poteva essere arrestato Bernardo Provenzano - dice ancora Di Matteo - il motivo per cui Mario Mori e Antonio Subranni, ai vertici del Ros, non potevano e non dovevano e non hanno voluto catturare Provenzano. Non perché potenzialmente corrotti, o intimiditi, o pregiudizialmente collusi con la mafia, ma perché preoccupati di rispettare il patto con l'ala moderata di Cosa nostra e di garantire la perpetuazione della segretezza di quell'accordo".
Al termine della requisitoria - durata otto udienze durante le quali si sono alternati anche i pm Roberto Tartaglia e il sostituto della Procura nazionale antimafia, Nino Di Matteo Francesco Del Bene - è tocca al pm Vittorio Teresi formulare la richiesta pena: boss mafiosi, politici e carabinieri accusati di avere intavolato un dialogo tra cosa nostra e le istituzioni. Una trattativa finalizzata a far cessare gli attentati e le stragi, avviati nel 1992 e proseguite nel '93, per indurre lo Stato a piegarsi alle richieste provenienti da cosa nostra.
Un processo imponente: iniziato il 27 maggio 2013, 210 le udienze (inclusa quella di domani), centinaia i testi ascoltati dalla Corte di assise presieduta da Alfredo Montalto, anche eccellenti: su tutti il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il primo nella storia della Repubblica ad essere ascoltato come teste, mentre era ancora titolare al Quirinale. Non ci sarà il "capo dei capi", il corleonese Salvatore Riina, detto "u curtu", morto il 27 novembre scorso, che in questi quattro anni e mezzo di dibattimento ha sempre partecipato, seppure in video conferenza, a tutte le udienze. Anche negli ultimi tempi, seppure allettato. Le ultime sue parole, in questo processo, sono state registrate il 9 febbraio 2017. Aveva fatto clamore la sua disponibilità a sottoporsi alle domande. Poi il cambio di rotta: "Sto male. Non intendo sottopormi all'esame del pubblico ministero e delle parti".
"Come in puzzle abbiamo messo le tessere e le abbiamo messe assieme. Come in puzzle la singola tessera diventa importante e fondamentale solo se si incastra perfettamente nel quadro generale. Siamo convinti che le singole tessere - a partire dagli anni Settanta e fino a metà anni '90 - siano tutte tessere che designano un unico, univoco, quadro d'insieme che ha a che fare con l'atto di accusa che vi abbiamo proposto. Un quadro di insieme a tinte fosche, con qualche tessera sporca di sangue, il sangue di quelle vittime delle stragi". Così il pm Vittorio Teresi, ha preso la parola - "per un ultimo pistolotto - così lo ha chiamato - dopo 5 anni di processo e di attacchi" - rivolgendosi al presidente della Corte di assise, Alfredo Montalto. È toccato a Vittorio Teresi, magistrato anziano e aggiunto fino a pochi mesi - formulare la richiesta di pena nel processo sua trattativa tra Stato e mafia. Ha proseguito Teresi: "Per esempio quella di Capaci, consumata per vendetta e per fermare la grande evoluzione normativa impressa da Giovanni Falcone. Quella fu l'ultima strage della prima Repubblica. I fatti poi si sono evoluti ma Paolo Borsellino era visto come un ostacolo al cambiamento che si voleva e si pensava nel momento in cui si avvia la trattativa. Via D'Amelio è la prima strage della seconda repubblica".