Attualità

IL FATTO. Tradimento previdenziale

Arturo Celletti giovedì 8 settembre 2011
Il conflitto generazionale c’è già. E ha la forza dirompente e drammatica dei numeri. Il dipendente privato che ha smesso di lavorare nel 2008 ha incassato una pensione che vale il 68,7% dell’ultimo stipendio. Suo figlio quando lascerà il lavoro nel 2040 prenderà solo il 52,4. Per gli autonomi andrà ancora peggio. Artigiani e commercianti vedranno crollare il primo incasso pensionistico dal 67,9% del guadagno nel 2008 al 31,8 nel 2040. In altre parole, l’assegno perderà più della metà del proprio peso.Dietro i numeri prende forma la denuncia: l’Italia dei padri sta tradendo consapevolmente l’Italia dei figli. Metà del Paese (quelli nati dopo il 1 gennaio 1970 sono più di ventotto milioni) vive un presente "sfregiato" dal precariato e da stipendi da fame. E attende un futuro senza una reale previdenza e senza credibili punti di riferimento. I dati si accavallano e amplificano la sensazione di sfiducia: secondo i calcoli fatti dal Center of research di Pittsburgh sui sistemi di welfare occidentale la pensione media di un italiano nato negli anni Ottanta sarà pari a 340 euro mensili.Un riequilibrio generazionale dal punto di vista della spesa deve essere assolutamente una delle priorità di questo Paese. Ma l’accordo non va cercato tra partiti. Va semmai costruito chiedendo all’Italia che è nello Stato sociale di pensare a quella che, inevitabilmente, ne cadrà fuori. Ai padri di tornare a pensare ai figli. E di aprire finalmente una riflessione sulla più terribile storia di egoismo che scuote il Paese e che si snoda in tre capitoli. Il primo si chiama debito pubblico. Nel 2005 era pari a 1.512 miliardi di euro, il 105% del Pil; oggi ha sfondato quota 1.900 miliardi. Insomma in poco più di 5 anni abbiamo caricato sulle spalle dei nostri figli ulteriori 388 miliardi. Il secondo è quello dell’abbattimento degli stipendi. Il salario medio annuo in Italia è pari a 14.700 euro netti (fonte Eurispes). Un neolaureato appena assunto non arriva mediamente ai mille euro al mese, dopo cinque anni può aspirare a 1200. Il 27,4% dei pensionati (poco meno di sei milioni di assegni) ha un trattamento di quiescenza superiore ai 1.500 euro mensili. Due milioni tra questi sono persone che hanno lasciato il lavoro prima dei cinquant’anni. Sarà ora di toccare questi fantomatici diritti acquisiti? C’è poi il terzo capitolo, il più devastante: l’ingiustizia più clamorosa ai danni degli under 40 di questo Paese è stata compiuta proprio con le politiche previdenziali.In queste condizioni il via libera alla manovra sembra solo l’aspirina somministrata al cardiopatico che aspetta un trapianto di cuore. Servono cure radicali, interventi decisi perché oggi è sempre più complicato fabbricare futuro. Davanti a noi c’è uno scenario che mette spavento. Dove si ha paura di generare figli che faticheremo a crescere, dove la famiglia viene messa in discussione da anni e anni di politiche scellerate. Stiamo vivendo un periodo eccezionale per la drammaticità della crisi economica che sta scuotendo il mondo: sarebbe un’occasione unica per realizzare riforme vere e aprire la strada a cambiamenti radicali invece di accontentarsi di semplici rattoppi. Sarebbe il momento perfetto per porre fine alla storia di un egoismo collettivo e di gettare le basi di una vera riforma strutturale della previdenza. Eppure non ci pare nemmeno questa l’ora degli sguardi larghi, delle scelte profetiche. I veti della politica, gli egoismi di una parte importante del nostro sindacato (nella Cgil, il 53% degli iscritti aderisce al Sindacato dei pensionati italiani) e della nostra impresa, continuano a essere un freno per l’apertura di una vera stagione di cambiamento. Qui si resta fermi e si schiva il problema ripetendo che una riforma c’è e che nel giro di qualche anno comincerà a dare effetti. Qui si invoca l’intervento della Bce a sostegno dei nostri titoli di Stato ma ci si dimentica che proprio l’Eurotower ha invitato l’Italia a intervenire con serietà sulla previdenza.Perché allora non accelerare? Perchè non rendersi conto che l’Italia non può restare, tra i grandi Paesi d’Europa, quello con la più consistente quota di spesa pensionistica sul totale delle prestazioni sociali: nel 2008 era al 60,7%, contro il 43 della Germania, il 46 della Francia, il 39,7 del Regno Unito e il 39,6 della Spagna. Bisogna muoversi perché gli artigli di un assurdo conflitto generazionale si allungano minacciosi. Perchè i nostri figli hanno cominciato a rimproverarci di avergli preparato un futuro peggiore del peggiore presente. Loro sono quelli che un giorno del 1995 hanno sentito dirsi "metodo contributivo" mentre noi scrivevamo una riforma che ci manteneva nel "metodo retributivo". Loro non capivamo cosa volesse dire. Noi facevamo passare in silenzio una legge che li lasciava scoperti e che bruciava loro il futuro.Oggi manca consapevolezza e informazione che, invece, sarebbero fondamentali per porre eventualmente rimedio, finché si è in tempo, a pensioni che altrimenti rischiano di essere al di sotto del minimo sociale. L’Inps dovrebbe mandare a tutti i contribuenti proiezioni sull’ammontare delle prestazioni che potrebbero ricevere a seconda di quando andranno in pensione e di come andrà l’economia. Servirebbe anche a incoraggiare investimenti in previdenza integrativa e la scelta di lavorare più a lungo. Se non si farà questo, sarà solo perché si ha paura di dire agli italiani la verità. Ma allora forse il rischio che il conflitto generazionale divampi sarà più forte. I padri rischiano sul serio di guardare i loro figli invocare una riforma con la R maiuscola e non un pastrocchio come quello poi ritirato sugli anni di militari e di università. Di osservarli gridare lo sdegno verso un’Italia con la quota più alta di giovani che non lavorano e non studiano. E, al tempo stesso, verso un’Italia con la vita lavorativa più breve. Due primati tristi che meritano un no forte. Perchè il nostro non è mai stato un Paese per giovani. Ma lo sarà ancora meno se non si farà qualcosa. Prima, magari, di ritrovarci con i nostri figli nelle piazze a manifestare per reclamare equità.