WELFARE. Piano contro la povertà Giovannini: «L'Italia è un Paese bloccato»
Universale, su base familiare, aperto anche agli stranieri residenti in Italia, che in più avvii un percorso d’inclusione attiva dell’individuo attraverso la presa in carico degli enti locali. Il Sostegno per l’inclusione attiva (Sia) per contrastare la povertà in Italia, illustrato ieri dal ministro delle Politiche Sociali, è una sorta di patto di diritti-doveri tra i beneficiari e le istituzioni locali per affiancare al sostegno economico tutti gli strumenti necessari all’uscita dall’indigenza della famiglia. La proposta, che presenta ampie convergenze con il Reddito d’inclusione sociale elaborato a luglio da Acli e Caritas Italiana, è il tentativo di dotare il nostro Paese – l’unico in Europa insieme alla Grecia – di un istituto nazionale di lotta alla miseria. Il Sia, «un progetto aperto» e «non immediatamente operativo» l’ha definito il capo del dicastero del Welfare, Enrico Giovannini, avrà ora bisogno di essere limato nelle scelte con le associazioni, il mondo sindacale e la politica. Ma il ministro promette: «Valuteremo se e come riusciremo a inserirlo nella legge di Stabilità».Un dato è certo: la situazione sociale non è sostenibile ancora a lungo. Il numero delle famiglie che non arriva a fine mese è in vertiginosa crescita. In più, il Paese sta attraversando la crisi più lunga e pesante che si ricordi dal Dopoguerra e lascerà dietro di sé una nazione «più vulnerabile». L’Italia, in fondo, è un «Paese bloccato», ricorda l’ex presidente dell’Istat. Paralizzato «dall’incertezza e dalla paura del futuro», l’ostacolo più grande per la ripresa. Per questo, non è più rinviabile una misura universale ed equa di contrasto alla povertà. Una «rivoluzione» che andrà fatta passo dopo passo e con prudenza, continua Giovannini, anche andando a riformare il sistema degli assegni familiari e quello dei centri per l’impiego, così come si è già fatto con l’Isee. Non ci sarà alcun assegno a pioggia però, che in parte riproporrebbe le storture dei tentativi del passato di sostenere i redditi più bassi. E neppure alcuna logica categoriale, che vincoli il beneficio all’appartenenza a una specifica classe sociale. Il Sostegno d’inclusione attiva, invece, lega l’aiuto economico (sotto forma di Carta acquisti) a un patto d’inserimento con i servizi sociali locali che consenta all’individuo in difficoltà economiche, e alla sua famiglia, di formarsi e specializzarsi per essere reinserito prima possibile nel mondo del lavoro. Pur avendo, nel frattempo, tutti i sostegni socio-assistenziali necessari. Nodo centrale per l’accesso è il reddito familiare complessivo (patrimonio compreso), la residenza legale in Italia e la valutazione dei comportamenti di consumo del nucleo, che potrà diventare la discriminante anche per il rinnovo del programma d’aiuto. Tutto questo monitorato capillarmente, grazie alla trasparenza d’informazioni tra gli enti interessati (Inps, Regioni e aggregati di Comuni), e con una revisione semestrale delle condizioni reddituali del beneficiario.Il fine del Sostegno per l’inclusione attiva, sottolinea perciò Ugo Trivellato, uno degli esperti che ha pianificato il meccanismo, è «dotare progressivamente gli indigenti di un paniere di beni decoroso» secondo la logica «dell’uguaglianza di fronte al bisogno». Uguaglianza di criteri su tutto il territorio nazionale, ma non stesso importo. Il sostegno, infatti, varia da caso a caso, visto che sarà pari alla differenza del reddito della famiglia con il livello minimo per non scendere sotto la soglia di povertà assoluta. «Composizione e situazione» del nucleo familiare, «differenze territoriali del costo della vita» e delle disponibilità di servizi collettivi, scende più nel dettaglio Paolo Bosi, altro membro del team di lavoro ministeriale, saranno solo alcuni elementi della valutazione.Il costo tuttavia non è dei più abbordabili, soprattutto in tempi di crisi economica e di vincoli di bilancio imposti dall’Europa. Il Sia, infatti, che si propone di raggiungere il totale degli indigenti in Italia dopo una fase transitoria di due-tre anni, ha un onere a regime di 7 miliardi l’anno che consentirebbe di aiutare il 6% della famiglie italiane. Fondi, ora fuori della portata dell’esecutivo, «che andrebbero tutti a stimolare i consumi e la crescita economica» dice però Giovannini. Anche Bruxelles ci chiede da tempo di fare di più per i poveri e l’Italia è anche oggetto di una raccomandazione specifica nell’ambito della strategia Europa 2020. Una lacuna che va colmata, insomma. A fronte di quasi cinque milioni di poveri lungo lo Stivale, difatti, l’Italia non solo non ha strumenti universali di contrasto, ma «spende in modo poco efficace e soprattutto in misura sensibilmente inferiore alla media dei Paesi comunitari». Il viceministro alle Politiche Sociali, Cecilia Guerra, che ha coordinato il team di studiosi del ministero, assicura però che il lavoro non è finito. Per rendere effettivo il Sia e colmare il gap con il resto d’Europa, servirà «un processo articolato che vedrà il coinvolgimento degli enti locali e del non profit».