Analisi. Il primato italiano e i buchi neri: cosa serve perché il Pnrr funzioni davvero
Ue
Ha un grosso merito il rapporto di valutazione intermedia della Commissione Europea sul Next Generation Eu: aver riacceso i riflettori sul mega-piano voluto e nato dagli Stati membri nel 2021, dopo la pandemia, ed alimentato, per la prima volta nella storia dell’Unione, da debito messo in comune fra le nazioni. Del Pnrr si erano un po’ perse le tracce (al di là delle polemiche politiche su un ultimo decreto, il quarto, annunciato dal governo Meloni e per ora bloccato dal confronto interno). E questo non è un bene, perché il Piano di ripresa e resilienza rimane, specie per noi italiani, la priorità delle priorità. Perché da una sua attuazione piena ed efficiente dipende la credibilità del nostro Paese in campo europeo, tanto più che del mega-progetto da 800 miliardi siamo i principali beneficiari con quasi 195 miliardi (101,9 dei quali già incassati); e anche perché, se ben impiegato, il Pnrr può avere un’efficacia nel livellare le disuguaglianze territoriali esistenti nel Paese anche maggiore rispetto al progetto governativo sull’autonomia differenziata, che tante polemiche sta invece suscitando.
Un Piano capace di unire nella comune finalità di migliorare l’interesse pubblico, quindi, anziché dividere la comunità nazionale in sterili polemiche. Come tutti i dati, anche quelli giunti da Bruxelles vanno però letti e interpretati. Essi ci dicono che l’Italia, che ha già chiesto all’Ue anche la quinta – delle 10 previste – rata dei pagamenti, ha un primato: è in testa quanto a obiettivi raggiunti (necessari per chiedere le rate). La valutazione europea segue però criteri tecnico-formali, basati sulle risposte date dagli Stati in termini di atti normativi e opere almeno avviate.
Non ci dice, però, dove sono finiti i soldi del Pnrr e se stanno rispondendo o no alla principale missione loro affidata: far crescere il reddito nazionale e, soprattutto, le sue potenzialità negli anni a venire. Per arrivare, se non a cambiar volto al Paese (sfida troppo impegnativa), a migliorare le prestazioni del “sistema Italia” come apparato istituzionale e produttivo. E qui si apre un “buco nero” che solo col tempo verrà svelato.
Lo stesso commissario Gentiloni, nel dire ieri che ci si attende ora un aumento medio del Pil pari all’1,4% nella Ue, ha invitato a non confidare troppo in «questa modellistica previsionale», peraltro già rivelatasi fallace in questi primi anni (va detto che la crescita 2022 e ’23 ha inevitabilmente risentito delle due guerre scoppiate ai confini dell’Europa).
Gli ultimi dati ufficiali (oggi è attesa una nuova relazione del governo), stando alla piattaforma Regis delle rendicontazioni, ci dicono che a fine 2023 l’Italia aveva speso 28,1 miliardi del totale delle risorse. Inoltre, a dicembre 2023 è intervenuta la revisione del piano nazionale, concordata con l’Ue, che ha toccato 145 misure, specie in campo energetico.
Il governo Meloni ha chiesto e ottenuto la rimozione di alcuni investimenti che prevedevano la maggior frammentazione delle risorse. È questo il nodo-chiave del Pnrr, che tocca da vicino un meccanismo sottoposto a forti stress proprio nelle ultime settimane e giorni (vedasi la protesta di venerdì scorso coi sindaci capitanati dal governatore campano De Luca): il rapporto fra il governo centrale e i Comuni, che risultano i soggetti attuatori di ben quasi 102mila progetti del Pnrr per circa 40 miliardi di spesa.
La capacità amministrativa è uno degli elementi più critici per attuare il Pnrr; e, dalle prime risultanze, gli interventi messi in campo dall’esecutivo per potenziare le macchine comunali non sembrano risultare sufficienti. Il rischio, connesso, è che possono restare esclusi dai fondi proprio quei territori che più ne avrebbero necessità. E che inoltre, nell’attesa, parte dei preziosi fondi europei sia “piegata” a finanziare in alcuni bandi anche la spesa corrente, anziché quella per investimenti produttivi. È una strada errata, che finirebbe solo per far lievitare ancor più il debito pubblico. Che è proprio quella zavorra da cui un Pnrr “virtuoso” ci dovrebbe alleggerire. E non guasterebbe un maggior confronto fra i partiti per farne un Piano davvero nazionale e non “di parte”.