12/12/1969. Il sopravvissuto di Piazza Fontana: «Vidi un braccio... è stata una bomba»
La strage alla Banca nazionale dell'Agricoltura, 12 dicembre 1969
Il 12 dicembre 1969 la sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana, appena dietro il Duomo di Milano, è piena di clienti. Alle 16.37 nel grande salone dal tetto a cupola esplode un ordigno imbottito con 7 chili di tritolo; muoiono 17 persone (l’ultima un anno dopo, per problemi di salute legati all’attentato) e 87 rimangono ferite. Una seconda bomba inesplosa viene rinvenuta alla Banca Commerciale Italiana in piazza della Scala e pure in una banca e in due piazze di Roma si verificano tre attentati che provocano 16 feriti.
È un odore a fargli intuire quel che è successo. Nella polvere che si è alzata e tutto avvolge si avverte un sentore acido, con un retrogusto di mandorle amare, che gli penetra nel naso, gli irrita la gola. Quell’odore gli ricorda qualcosa dell’infanzia, di quando abitava a Solagne, nel Chietino preso in mezzo alla linea Gustav, ai combattimenti tra inglesi e tedeschi. Ecco è quello stesso gas acido: «È una bomba, qui è scoppiata una bomba», si rende conto dopo lo smarrimento iniziale. È il primo a comprenderlo con chiarezza e a dirlo mentre, ancora stordito, come un automa prima risponde al telefono a un agente che «No, non è scoppiata la caldaia, non c’entra nulla» e poi si guarda intorno, come gli chiede il poliziotto e nel buio intravede volti insanguinati, e poi «un braccio... » per terra, staccato dal corpo. E allora mette giù la cornetta senza riuscire a dire altro e si dirige verso il centro del salone.
Fortunato Zinni è vivo perché quel 12 dicembre 1969 nella filiale di Piazza Fontana della Banca Nazionale dell’Agricoltura, alle 16,30 attraversa il salone centrale dove si era intrattenuto con alcuni clienti che avevano concluso una transazione e sale in una stanzetta dell’ammezzato per esaminare il testo di un comunicato sindacale: oltre ad essere impiegato, infatti, fa parte della commissione interna. Per leggere quella nota si appoggia alla vetrata, il tempo di scorrere poche righe e, alle 16,37, un boato tremendo, uno spostamento d’aria violento, manda in frantumi la vetrata e lui lungo disteso.
Quando scende, dopo aver risposto all’agente che chiama al telefono perché è scattato l’allarme della banca collegato con la Questura, avanza verso il centro del salone cercando i due clienti coi quali parlava poco prima. «Procedo senza dar seguito agli inviti dei colleghi a uscire – racconta Zinni –. Poi li vedo: Gerolamo Papetti è ferito gravemente (morirà la mattina dopo), Paolo Gerli ha il corpo tranciato a metà. Non è passata nemmeno mezz’ora da quando avevo "tagliato" la loro stretta di mano, per una compravendita dopo il mercato agricolo che si teneva nella piazza, davanti alla banca».
Nella drammatica confusione di sangue, membra dilaniate e oggetti scagliati ovunque dalla deflagrazione, Zinni si sente afferrare al polpaccio. Per terra c’è un ferito, con una gamba spappolata, che lo implora: «Mi aiuti, mi aiuti». «Non so cosa abbia fatto – racconta ancora –. Ma due mesi dopo si presenta da me in banca una persona con un pacchettino. Contiene una cintura da alpino, è un ricordo di mio nonno. "Non se ne rammenta? Me l’ha stretta intorno alla gamba". Io? No, non credo di esserne stato capace, replico. "In effetti era un po’ imbranato, ma l’ho guidata io e mi ha salvato prima che arrivassero gli infermieri a soccorrerci"».
Sono passati 50 anni, ma il racconto di Fortunato Zinni – allora 29enne già impegnato anche come assessore al Comune di Bresso, di cui in seguito sarà pure sindaco – è lucido e commosso insieme. Come sempre, come in tutti questi anni in cui ha seguito, da delegato sindacale della Cgil prima, da politico poi, ma soprattutto da testimone, le vicende umane delle vedove e dei feriti della strage, le indagini, i processi, le sentenze contraddittorie.
«Lo spostamento del processo da Milano a Roma a Catanzaro è stato chiaramente funzionale a insabbiare tutto, a non far emergere le responsabilità anche degli apparati deviati dello Stato – spiega –. E ricordo il telegramma inviato alla Corte da Rosa Galatioto, la figlia di una delle vittime, in cui diceva che quel trasferimento, con l’impossibilità per le parti civili di seguire le udienze – saranno 263 a Catanzaro – era qualcosa che ledeva nel profondo la sua dignità di donna e di cittadina».
Troppo imbarazzanti allora, per lo Stato, i legami tra movimenti neofascisti come Ordine Nuovo e componenti dei servizi segreti, che verranno sanciti ufficialmente solo nel 2005 con la sentenza definitiva della Cassazione. Senza peraltro che la serie infinita di processi abbia dato ai parenti delle vittime almeno la consolazione di vedere condannati i responsabili, Franco Freda e Giovanni Ventura, non più perseguibili perché già assolti per lo stesso reato.
Alla fine “Nessuno è Stato” come Fortunato Zinni ha significativamente intitolato un suo libro. E invece qualcuno è stato 50 anni fa a mettere la bomba e qualcun altro, invece, occorre ancora oggi che sia Stato. Stato, non solo nel significato di istituzioni democratiche, ma di una comunità di cittadini consapevoli, in grado di opporsi a chi minaccia libertà e democrazia.
«Al funerale delle vittime della strage in Duomo a Milano c’erano 300mila persone non solo commosse ma decise a fare argine al terrore che rispondeva con le bombe alle conquiste economiche, sociali e politiche che stavano avanzando in quella stagione, con il primo sì allo Statuto dei lavoratori pronunciato proprio l’11 dicembre e l’approvazione della legge che apriva le università agli studenti meno abbienti – dice ancora Zinni –. Ecco, anche oggi è necessario impegnarsi perché nessuno approfitti di difficoltà e vuoti politici per mettere a rischio libertà e democrazia. Il fatto che una persona come Liliana Segre, vittima del nazismo, sia oggetto di attacchi inauditi ci dice che la vigilanza è ancora e sempre necessaria. Anche per questo giro nelle scuole e i giovani che incontro non restano indifferenti, se si spiega loro ciò che è accaduto».
Testimonianza, memoria e vigilanza che non sono scontate. Neppure da parte delle stesse istituzioni democratiche. «Sono felice che finalmente un Presidente della Repubblica commemori ufficialmente a Milano le vittime della strage – conclude Zinni –. Cinquant’anni fa Giuseppe Saragat non intervenne ai funerali in Duomo. Da allora nessun altro capo dello Stato è venuto il 12 dicembre a Milano a ricordare i morti. Un 11 dicembre ci ricevette al Quirinale Sandro Pertini e io, nonostante il divieto del protocollo, gli chiesi conto dell’assenza da Milano. Lui mi rispose molto sinceramente che "I consiglieri e i Servizi lo sconsigliano". Alle commemorazioni, poi, non sono intervenuti né Cossiga, né Scalfari, né Ciampi né Napolitano. Oggi apprezzo molto la sensibilità del presidente Sergio Mattarella, che invece ha scelto di essere presente a Milano, anche se resterà in Consiglio comunale e non verrà proprio in Piazza Fontana”. Là dove, 50 anni fa, fu versato il sangue di 17 persone nel tentativo di sovvertire lo Stato. Lo stesso Stato a cui quel sangue chiede ancora oggi invano piena verità e giustizia.