Caritas. Marco Pagniello: «Più reti e comunità contro la violenza»
Dopo il decreto Caivano, interviene don Marco Pagniello, direttore dell’organismo pastorale della Cei: «Non basta la chiave repressiva, vanno costruite alternative alla desertificazione sociale» Le vicende di cronaca dalle quali è scaturito il decreto Caivano sono l’iceberg di una violenza giovanile spesso estrema. La prima risposta è stata soprattutto repressiva. Ma è sufficiente? La chiave repressiva e l'inasprimento delle pene dal nostro punto di vista non sono senz'altro una risposta sufficiente al problema della criminalità giovanile e ancor meno alla povertà educativa – risponde don Marco Pagniello, direttore di Caritas italiana –. Soprattutto, non rappresentano la misura più utile per i minori, per i quali va previsto piuttosto un accompagnamento da parte della comunità e un lavoro di formazione e di recupero perché possano acquisire consapevolezze sulla propria condotta e sulle conseguenze devastanti dei propri gesti deviati. Il sistema di giustizia minorile del nostro Paese è riconosciuto come un'eccellenza europea perché lavora in termini riparativi, mettendo al primo posto non l'aspetto punitivo (per quanto previsto), ma l'obiettivo dell'accompagnamento, del recupero alla vita sociale e del reinserimento per evitare i rischi di recidiva e di traiettorie di crescita tendenti a devianza e criminalità. Si tratta di ragazzi. A volte di bambini. Dobbiamo lavorare per cambiare la loro sorte.
Come contrastare questa violenza senza usare solo il pugno di ferro?
Lavorando soprattutto sul contesto educativo e sulla comunità, rafforzandoli con misure concrete. Le nuove misure del governo prevedono, tra l'altro, sanzioni per le famiglie che non mandano i figli a scuola o un controllo imposto sull'utilizzo dei telefonini. Ma siamo sicuri che siano applicabili in contesti familiari spesso fragilissimi e molto poveri economicamente? Potrebbe essere più efficace un presidio dei territori in termini di educazione e socialità che riprenda i contatti con le famiglie e faccia percepire la presenza dello Stato come realtà che porta soluzioni di inclusione e costruisce alternative. Il controllo del territorio si fa non solo contenendo, ma anche facendo crescere. Le persone che vivono in aree devastate dalla violenza, come Caivano, chiedono spesso di andarsene. Vanno allora costruite alternative alla desertificazione sociale. E queste sono “ricostruire la città” insieme, nel quotidiano. Si deve ripartire dalle periferie. Non solo da quelle geografiche, ma prima e più ancora da quelle esperienziali e biografiche. Rimetterle al centro della propria azione sociale significa cambiare il focus e avere una visione nuova del Paese che può condurre anche le politiche.
Come contrastare ad esempio la povertà educativa e la dispersione scolastica che contribuiscono a rendere la povertà ereditaria?
Crediamo nel sostegno alla “comunità educante”. Si tratta di riscrivere le alleanze tra scuola e territorio e mettere al servizio di quest’opera democratica le tante energie del Terzo settore, delle parrocchie, dei contesti educativi informali che possono accompagnare, dare senso e potenziare l’enorme e insostituibile opera della scuola. Ciò va fatto in maniera convinta, accompagnata da risorse consistenti e monitorando gli esiti dei progetti per valutarne in termini oggettivi gli impatti. Il lavoro sociale va misurato e valutato, nel nostro Paese lo facciamo poco e fatichiamo a costruire modelli di intervento. Sono processi lenti che richiedono alleanze stabili sui territori e che devono saper guardare anche al medio e lungo periodo. Quel che dico è la cosa più lontana dalle ingenue buone intenzioni e meno che mai si tratta di buonismo. Si tratta di prendere sul serio le evidenze dei dati, l'esistenza dei processi e delle sperimentazioni esistenti. Significa uscire dalla logica del finanziamento a pioggia per entrare in quella orientata agli obiettivi: educativa di strada, affiancamento tra docenti e operatori sociali, servizi di ascolto e accompagnamento psicologico, tutoraggio alle famiglie anche con strumenti di natura economica e sostegno al reddito.
Quale deve essere il ruolo delle Caritas nella comunità educante?
Non solo Caritas ha un ruolo, ma tutta la realtà ecclesiale, in particolare la ricca realtà della Pastorale Giovanile, dei movimenti giovanili, dell’associazionismo come gli Scout, l’Azione cattolica e i tanti che da anni “restano”, “camminano con”. Tutta la Chiesa italiana deve sentire la responsabilità del compito e mettersi al servizio della costruzione di un progetto di comunità che sconfina, disposta al lavoro di rete, che mette a disposizione spazi, risorse e soprattutto passione, tempo e relazioni. Come Caritas, poi, grazie alla nostra presenza capillare, possiamo essere lì dove ci sono le “cellule territoriali di emergenza educativa” e sostenere con una risposta che guardi parallelamente ai bisogni emergenziali (in alcune porzioni di territorio i ragazzi sono esposti alla povertà alimentare) e alla costruzione di futuro, studiando modi nuovi per sostenere i talenti e offrire spazi di immaginario diversi sul futuro. Allora ben vengano le doti educative, l'orientamento, i gemellaggi, oltreché i sostegni materiali per i beni di prima necessità e il materiale scolastico. Alzare lo sguardo è aiutare i ragazzi a pensarsi in grande.
Come costruire una rete in cui le Caritas siano parte attiva sui territori più difficili?
Ultimamente abbiamo lavorato molto sul tema della comunità educante e supportato i territori con formazione e gruppi di lavoro tematici per confrontarsi e scambiare pratiche e anche destinando fondi specifici. Il lavoro dell’8Xmille, per esempio, sostiene una linea di progetti specifici sulle povertà minorili, proprio per aiutare i territori a mettere a tema questa prospettiva nel lavoro quotidiano. È un'emergenza democratica e noi la sentiamo tutta. Ci siamo fatti aiutare anche da donatori che condividono l'urgenza di lavorare su questi ambiti. Caritas può dare una mano nei territori più difficili perché è lì con un lavoro quotidiano, duraturo e costruito nella prossimità. I volontari, gli operatori dei centri di ascolto conoscono i bambini e le loro famiglie uno ad uno, li chiamano per nome. Perciò possono aiutare i processi di creazione di rete con il rafforzamento di reti di solidarietà di bassissima soglia.
Quali esperienze di comunità educante sono già attive?
Sono tante e disseminate in tutto il Paese: al Sud – dove il fenomeno è deflagrato nella cronaca – ma anche al Nord, nelle metropoli, nelle periferie, nei piccoli centri e nelle aree interne. I dati dicono che la violenza e la povertà educativa sono un problema che percorre tutto il Paese e disegna sacche di emergenza a macchia di leopardo di quartiere in quartiere. Pochi chilometri di distanza disegnano scenari completamente diversi in una stessa città. È a quel livello micro, vicinissimo alla gente, che bisogna lavorare. E Caritas lo fa con i centri di aggregazione, con il supporto educativo che spesso diventa alimentare (dove le mense non ci sono), con la proposta di esperienze di formazione e crescita, non ultimo il prezioso strumento del Servizio civile. Si lavora con scuole, Terzo settore, ma anche con pediatri, medici di base, famiglie. Ai ragazzi che partono da comunità dissestate e ferite va fatta toccare con mano la bellezza possibile. Bisogna recuperare lo stupro del loro immaginario violato e lo si può fare solo insieme. Credendo in loro e rientrando in contatto con quel seme di possibilità che hanno.