Editoriale. Perché ripartire dalla cittadinanza. Gli italiani dimenticati
Nel Paese delle emergenze, ce n’è una colpevolmente dimenticata: l’emergenza integrazione. Se provassimo a parlarne? In fondo, è il principio di realtà a chiedercelo, quando parliamo di immigrazione. È quello stesso principio che ha portato, sul versante degli sbarchi, a emanare discutibilissimi provvedimenti in serie durante questa legislatura, dal giro di vite anti-Ong, poi superato dai fatti, al contestato piano regionale dei Cpr, osteggiato in primis dalle regioni di centrodestra.
L’ultimo atto delle politiche migratorie, il già fragile protocollo firmato dall’Italia con l’Albania, sembra rappresentare perciò soltanto l’ultima spia della nostra cattiva coscienza. Scaricare su Tirana i migranti soccorsi in mare, dopo anni di propaganda ora archiviata contro “gli albanesi”, in una complicata serie di distinguo giuridici, umanitari e politici, non servirà né a risolvere il nodo degli arrivi incontrollati dal mare, né a responsabilizzare l’Europa e gli altri Paesi.
Più ancora, dimostra come da parte nostra si consideri sempre più ingovernabile il fenomeno – che governabile lo sarebbe sul piano strutturale dell’accoglienza –, fino ad arrivare ad alzare bandiera bianca cercando improbabili alleati del momento, dal presidente Kais Saied in Tunisia allo stesso premier albanese Edi Rama. Non occorre essere visionari per capire che il messaggio trasmesso ai profughi che oggi sognano le coste italiane è abissalmente diverso da quello di trent’anni fa, quando da Durazzo salparono verso Bari in ventimila. Con il tempo, poi, i loro figli hanno trovato accoglienza, lavoro e stabilità nel nostro Paese.
Qui si inserisce, appunto, l’emergenza integrazione. Il tempo perduto non torna più e questo vale a maggior ragione per gli oltre 800mila ragazzi nati nel nostro Paese da genitori stranieri. Però se davvero si ha a cuore il destino della Nazione che vede oggi decine di migliaia di suoi figli emigrare all’estero la sfida aperta della cittadinanza non può più essere rinviata. Avvenire ne ha fatto a lungo e continua farne una battaglia culturale, portando alla luce le storie di migliaia di adolescenti nel limbo: vivono in Italia da quando sono nati, frequentano le nostre scuole e i nostri oratori, fanno sport insieme ai nostri figli, eppure non sono nostri connazionali.
Potremo dimenticarli ancora a lungo? Perché esistono, almeno quanto i migranti di cui ci occupiamo quotidianamente perché riempiono le nostre cronache, da Lampedusa a Roccella Ionica, passando a nord per la rotta balcanica. Esistono e non possono essere cancellati, neppure attraverso trasferimenti forzati. Sono già nelle nostre città, abitano nei nostri condomini, popolano le nostre piazze e non se ne vergognano. Possiamo ignorarli? Il principio di realtà dice di no, superando la logica della burocrazia. Anche i 15.386 minori non accompagnati giunti in Italia dall’inizio dell’anno sono un dato di fatto: è vero, vanno in carico ai Comuni, però non possono non rappresentare una piccola grande emergenza, non fosse altro perché richiedono, vista l’età, la programmazione di percorsi ad hoc.
Insieme a tutto questo, poi, bisognerebbe considerare i tanti progetti di vita interrotti, una volta che si sono prosciugate le risorse pubbliche per l’insegnamento della lingua italiana nelle scuole, i servizi di mediazione culturale, i piani di inserimento virtuoso sul lavoro. Tutto fermo, dunque. Una novità, nelle ultime settimane, è spuntata, per la verità: si tratta dello stanziamento annunciato di fondi per gli under 18 stranieri nell’ultima legge di bilancio. Un segnale di inversione di tendenza, che recepisce soprattutto l’insistente richiesta di aiuto dei territori. Tutto questo si chiama integrazione e chiama in causa il futuro delle nostre comunità, la loro coesione e la loro capacità di rispondere alle sfide cruciali del nostro tempo. Nel Paese delle emergenze, abbiamo sempre più bisogno di una politica – e di scelte politiche – all’altezza del compito assegnato.