Crisi sanità. Pronto soccorso in affanno, anche 40 giorni su una barella
L'attività di un pronto soccorso
Non servivano, forse, i numeri a confermare le tante preoccupazioni che medici e infermieri nutrono da anni sul Servizio sanitario nazionale. Ma nelle scorse settimane, passando più o meno inosservati, ne sono arrivati molti, e tutti insieme. Prima quelli della Corte dei conti, che in una relazione al Parlamento ha denunciato la scarsità dei posti letto negli ospedali: 3,1 ogni mille abitanti, contro i 4,3 della media dei Paesi Ocse. Poi, quelli dell’Annuario statistico dell’Ssn, che ha aggiornato il novero dei nosocomi italiani: 996 contro i 1.286 del 2002. Ossia quasi 300 presidi persi in vent’anni. Per fronteggiare l’emergenza, la spesa pubblica in sanità aumenta, ma solo in assoluto. Nella misura che più conta, ovvero nel rapporto con il Pil, l’esborso previsto dal Def scenderà dal 7% del 2020-21 al 6,2% del 2027. Cifre lontane dalle vicine Germania e Francia, che spendono rispettivamente il 10,9% e il 10,3%. A farne le spese, più di ogni altro settore dell’Ssn, sono i Pronto soccorso. Sovraffollati, privi di personale e sempre più lontani dai pazienti, alcuni sono costretti a “parcheggiare” degenti in corsia per settimane mentre altri faticano a tutelare la salute (fisica e mentale) del personale sanitario. «Per il mancato ricovero, le persone muoiono in Pronto soccorso invece che in un letto d’ospedale», denuncia il dottor Fabio De Iaco, presidente della Società di medicina di emergenza-urgenza (Simeu). Che ha calcolato nel 2022 circa 18.000 decessi all’anno di persone «che non dovrebbero morire nei ps», che perdono cioè la vita oltre le 24 ore di permanenza. La lungodegenza, giunta in Italia anche a record di 40 giorni, è il primo e più grave sintomo dell’affanno dei reparti di emergenza-urgenza. In gergo, si definisce boarding e spesso costringe in barella anziani, talvolta terminali, che non trovano adeguata assistenza sul territorio, nelle cure domiciliari o in ospedale. «Da noi la gente sta anche cinque giorni in barella – sostiene De Iaco, direttore della struttura di Medicina d’urgenza dell’ospedale Maria Vittoria di Torino – e i grandi anziani polipatologici finiscono per morire lì». Non solo. Gli 800mila pazienti all’anno (stima Simeu) che non lasciano i Pronto soccorso prima di 72 ore, obbligano i medici d’urgenza ad attrezzarsi per cure e terapie tipiche dei reparti ospedalieri, impiegando nei ps circa un terzo del personale sanitario in «reparti fantasma». Anche negli ospedali di provincia: «Fino al Covid, il boarding era limitato a Roma e a poche altre aree – commenta il presidente Simeu –, ora abbiamo ovunque enormi difficoltà e l’attrattività della medicina d’urgenza è bassa». Così bassa che, alla scorsa tornata, quattro scuole di specializzazione non hanno ottenuto l’assegnazione di neppure uno specializzando per l’emergenza-urgenza. E, in generale, oltre la metà dei posti a bando è rimasta vacante. Fra i vincitori, circa il 10% ha mollato il percorso prima della fine. La crisi delle “vocazioni” indebolisce già oggi le strutture che fanno ricorso ai più giovani per tappare i buchi del personale, privilegiando de facto gli ospedali universitari. «Nei ps l’unica possibilità seria è far lavorare gli specializzandi – commenta il dottor Massimo Minerva, presidente dell’Associazione liberi specializzandi – ma gli ospedali universitari non li mollano: spesso quelli normali non contano come gli altri». L’alternativa ai medici in formazione sono i “gettonisti”, professionisti di cooperative spesso privi della formazione necessaria, assunti a tempo per chiudere i turni. Secondo un report Anac, il mercato della fornitura del personale ha un valore stimato di 1,7 miliardi di euro e privilegia cinque operatori che, da soli, si assicurano il 64% del suo valore. Per questo, con il recente decreto Pnrr, il Governo ha tentato di dare una stretta ai gettonisti, facilitando l’assunzione degli specializzandi tramite l’abolizione del tetto di 18 mesi ai contratti.
Eppure, a queste condizioni lavorative, convincere i giovani camici bianchi a entrare nei Pronto soccorso resta un’impresa. «Siamo i più esposti a non rispettare gli orari. Nel mio ospedale di notte c’è un solo medico che deve fare i salti mortali per rispondere anche a due emergenze in contemporanea», racconta Lorenzo Iogna Prat, rappresentante Simeu per il Friuli-Venezia Giulia impiegato all’ospedale di Tolmezzo, in provincia di Udine. Quando lo abbiamo chiamato alle 9.30 di mattina, si è scusato per la voce rauca: delle sue ultime 60 ore, oltre 40 le aveva trascorse dentro al pronto soccorso. «Il Friuli sta vivendo una profondissima crisi dal dopo-Covid – racconta –. La mia quotidianità è fatta di contingenze: devo fare i conti ogni giorno con le risorse». A costo, talvolta, della salute: proprio in Friuli, che non fa eccezione rispetto al dato nazionale, il fenomeno delle aggressioni è quotidiano. Nel 2023 erano più di una al giorno e i più colpiti proprio i medici dei pronto soccorso.
Perciò, è un gatto che si morde la coda. Condizioni di lavoro critiche svuotano i banchi delle scuole di emergenza-urgenza e la scarsità del personale mette in ginocchio gli ospedali pubblici, sempre più lontani dai pazienti (secondo Agenas, 3,4 milioni di italiani impiegano oltre mezz’ora per raggiungere un pronto soccorso). Così, si offre il fianco alle alternative private, che non attirano solo le fasce di reddito più alte: «In questi anni si sono rivolti a me artigiani e lavoratori da qualunque ceto sociale per garantirsi una visita specialistica in poco tempo», spiega il dottor Carlo Zampori che per primo aprì un ps privato per codici minori a Milano nel 2009. Che garantiva - al prezzo di 150 euro (o meno se categorie deboli) detraibili - visite dall’otorino, operazioni per coliche renali o piccoli interventi chirurgici alle dita. «Visto e curato in massimo un’ora», garantiva Zampori ai pazienti. Per far fronte a questo «corto circuito fra pubblico e privato», secondo i professionisti, la soluzione è trovare fondi per il personale e rimettere in moto la medicina territoriale. «Se non mettiamo mano alla legislazione vigente – denuncia Pierino Di Silverio, segretario del sindacato Anaao – che oggi considera le cure ospedaliere e territoriali due compartimenti stagni, non ci siamo. Serve un percorso incentrato sul paziente da quando esce di casa fino all’ospedale».