Il finanziamento pubblico sta per morire, ma un po’ resta in vita sotto altre forme. La novità che si concretizzerà a fine anno (dal 2017 scatta la fine dei rimborsi versati per ogni tipo di elezione, una rivoluzione sancita dal governo Letta a 23 anni dal referendum abrogativo del 1993) cela infatti una realtà parallela. Con la scomparsa dei rimborsi si chiude una porta, ma restano aperte altre finestre. Una alternativa 'pubblica' (ma poco pubblicizzata) al finanziamento della politica da parte di soli (potenti) 'privati' che purtroppo la legge italiana non rende – come le inchieste di 'Avvenire' hanno illustrato – sempre e necessariamente trasparente. Comunque, tra agevolazioni e sconti fiscali sono diversi i canali che rimangono attivi. E che, per un verso o per l’altro, potranno continuare ad assicurare fino a quasi 150 milioni di euro in un anno. Più dei 124 milioni annui ricevuti in media solo come rimborsi dal 1994 al 2013. Un tempo queste cifre si sommavano fra di loro, ora invece non sarà più così sebbene alcune norme diano ancora la sensazione di un trattamento di riguardo o almeno 'speciale'. Parlare di 'taglio ai costi della politica' conserva, infatti, un fascino immutato. Una prova l’ha data, prima di Ferragosto, lo stesso presidente del Consiglio Renzi, evocandola come un’arma anche per vincere il referendum sulla riforma costituzionale: «Sarebbe bello poter dare ai poveri i 500 milioni che si risparmierebbero», ha dichiarato. Il tema dei soldi alla politica, insomma, è sempre d’attualità. Ricostruire la mappa di tutti questi
benefit che costruiscono un Fisco 'a misura' non è compito agevole anche per chi vi si è dedicato, come l’associazione Openpolis. Si va da misure da sempre criticate, come la super-detrazione sulle somme di denaro versate ai partiti, ai contributi dati ai gruppi parlamentari e regionali (la voce ancora più costosa) fino all’Iva agevolata al 4%. Quella delle condizioni di estremo favore per le '
erogazioni liberali a favore di partiti politici' è storia vecchia. Mentre molte spese hanno tetti più bassi (per aiutare a esempio le 'popolazioni colpite da calamità naturali' il contribuente può recuperare solo il 19% di 2.065,83 euro), qui il legislatore è stato di manica più larga: è consentita una detrazione del 26% fino a un contributo massimo di 30mila euro. Tradotto, vuol dire uno sconto fiscale fino a 7.800 euro. In questo caso c’è stata anche un’inversione di tendenza: fino al 2012 si poteva finanziare un partito donando fino alla notevole cifra di 103mila euro. Fu il governo Monti a stringere la cinghia, abbassando la soglia a 10mila (alzando lo sconto dal 19 al 26%), poi Letta - forse anche per compensare la fine dei rimborsi diretti - decise di triplicarla. Un privilegio rispetto, a esempio, alle somme donate al mondo del volontariato tale da aver provocato le vibranti proteste del Terzo settore: per questo un anno fa fu deciso di riservare lo stesso regime anche alle Onlus. Questa corsia preferenziale concessa alla politica com- porta però un mancato incasso per lo Stato, quantificato in 27,4 milioni nel 2015. Un altro aiuto indiretto riguarda i rimborsi per gli
spot. Quando vedete o sentite sulle tv e radio (anche locali) una pubblicità elettorale di partito, questa non è pagata da chi la fa, ma dallo Stato. Una misura che intende tutelare la parità di accesso ai mezzi d’informazione. Giusto, e il costo tutto sommato è contenuto visto che è di circa un milione e mezzo. Alla luce della sempre più critica situazione finanziaria dei partiti, costretti a ridimensionare un personale in passato spesso eccessivo, il legislatore non ha trascurato poi di creare un
fondo per integrare gli stipendi dei dipendentiai quali è stata appositamente estesa la cassa integrazione, come per un’industria finita in crisi: sono altri 15 milioni di euro per il 2014 e 8,5 l’anno scorso, ma con la possibilità teorica che l’importo cresca negli anni a venire casomai aumentassero le necessità. C’è poi la 'clausola di salvaguardia' - per così dire - che la politica si è creata sull’imposta sul valore aggiunto, l’Iva. Mentre negli anni per i cittadini questa è aumentata fino al 22%, forze politiche e candidati godono dell’aliquota
al 4% per diversi tipi di spese fatte in campagna elettorale: materiale tipografico, spazi di affissione, affitto di locali, servizi e allestimenti per manifestazioni, e via con un elenco che si allunga in base anche all’evoluzione tecnologica e alle nuove forme di comunicazione (nel 2012 è stata estesa ai messaggi elettorali su Internet). Si tratta di un mercato, e per gli interessati c’è un risparmio non irrilevante: nelle elezioni del 2013 furono spesi per queste voci 45,4 milioni, si stima che l’agevolazione abbia fatto risparmiare 7 milioni e mezzo. Il 'grosso' delle somme tuttora incamerate viene però da un altro canale, più tradizionale. Stiamo parlando dei 'cari', vecchi
contributi pubblici erogati ai gruppi politici presenti in Parlamento e nei Consigli regionali (peraltro spesso finiti al centro di scandali) per consentire il loro funzionamento. Un fiume di denaro che vale oltre 80 milioni di euro l’anno. Alla Camera i gruppi hanno ricevuto nel 2014 oltre 30 milioni, al Senato circa 19. A incassare di più è ovviamente il partito più forte, il Pd: 20,4 milioni. In questo caso anche M5S, che invece ha rinunciato ai rimborsi elettorali, passa alla cassa per circa 7 milioni. Queste somme spiegano almeno un po’ anche l’interesse sempre alto per i 'cambi di casacca': si calcola infatti che un senatore 'valga' quasi 60mila euro di contributo l’anno, un deputato circa 49mila. Ma nel caso di un consigliere della Liguria si superano addirittura gli 80mila euro. Fra territori ci sono peraltro squilibri evidenti: Lombardia (con appena 5 centesimi di euro per abitante riconosciuto a ogni consigliere) e Veneto sono le più virtuose, mentre il Molise è la regione più generosa arrivando a ben 3,61 euro per abitante. A questi si aggiungono poi i contributi dati ai gruppi presenti al Parlamento europeo (in media quasi 80mila euro annui versati per ogni deputato), solo che in questo caso le somme arrivano dal bilancio comunitario. Un capitolo poco noto è quello dei
contributi 'girati' dagli eletti ai partiti di provenienza. Non tutti lo fanno, anche se le regole interne prevedono un 'giroconto' al partito nazionale di 1.500 euro al mese per un parlamentare del Pd, di oltre 3mila per quelli di Sel e Lega e di 800 euro dentro Forza Italia (le somme sono più basse per gli amministratori locali). Questo contributo è generosamente assimilato dal Fisco alle 'donazioni spontanee', anche nei casi in cui è previsto come obbligo dallo statuto del partito. Se si stima un contributo medio di mille euro al mese per ogni parlamentare, quest’altra agevolazione costa allo Stato quasi 3 milioni l’anno. Altri 9 milioni vanno ai
media di partito. Infine, per la sostituzione dei vecchi rimborsi c’è la novità introdotta dal governo Letta: la formula del
2xmille dell’Irpef, pensata per offrire comunque un finanziamento 'pubblico' invogliando il contribuente a scegliere (in questo caso i soldi non provengono dal suo portafoglio, ma andrebbero comunque allo Stato perché fanno parte del normale prelievo Irpef sui redditi). Per le casse dello Stato è però sempre un mancato introito. Nel primo anno di applicazione il 2014 - il 2xmille è stato un
flop: lo hanno scelto appena lo 0,21% dei contribuenti, poco più di 16mila italiani, che hanno destinato così ai partiti appena 325mila euro. Già nel 2015, tuttavia, il numero ha superato il milione di contribuenti, le cui scelte in totale valevano 12,3 milioni. Un problema per i partiti, visto che la legge aveva fissato un tetto di 9,6 milioni per quell’anno. Hanno dovuto rinunciare quindi a 2,7 milioni. Problema superato: la soglia è stata portata a ben 30 milioni già per quest’anno.