Intervista. Parisi sferza il Pd: «Troppi errori»
Il professor Arturo Parisi, uno dei fondatori dell'Ulivo assieme a Romano Prodi
«E' una campagna brevissima. Troppo breve. E non penso ai giorni di legge. Eguali nel tempo. Parlo del tempo necessario ai partiti per formulare proposte meditate, e agli elettori per evitare una scelta immatura... Troppo breve per consentire nella politica incontri duraturi, soprattutto se nuovi, e un confronto fecondo, ma purtroppo lunga a sufficienza per anticipare lo scontro che in autunno ci aspetta nella società». Arturo Parisi ci "regala" subito una riflessione cruda sull’Italia che corre verso il voto. «Vedo un quadro terribile. Il caro vita, i costi dell’energia… Le questioni economiche e sociali esploderanno», avverte il fondatore dell’Ulivo. Sul banco degli imputati ci sono le scelte della politica. Anche quelle del "suo" Pd. Sfidiamo Parisi: molti scommettono sulla vittoria del centrodestra. «Non basta sommare appartenenze di partito o abitudini di voto. Questo è un Paese dove un cittadino su due si muove tra una sigla, un’altra sigla e l’astensione. Un Paese più che frammentato, polverizzato al punto da portare il partito di turno dalla soglia della sopravvivenza fino alla testa della classifica, per poi rifarlo implodere con la stessa velocità con la quale era esploso». Parole ancora severe. Dove è evidente il riferimento a Matteo Renzi, a Giuseppe Conte, a Matteo Salvini. E dietro le quali si agita un avvertimento a Giorgia Meloni.
I veti di Bruxelles e del centrosinistra freneranno la corsa di Meloni?
Lasciamo da parte i presunti veti. Nel caso, per principio inaccettabili. Se nell’azione di governo sono di ostacolo, nella raccolta dei consensi possono tramutarsi in un vantaggio. E poi è difficile non riconoscere a Meloni la spinta che le viene da una condotta coerente in una legislatura nella quale più o meno tutti sono riusciti ad allearsi, volta a volta, con tutti. Di certo Meloni ha galoppato ed è cresciuta quanto è cresciuto il suo partito. Ma una cosa è essere a capo di un partito, un’altra essere riconosciuta leader incontrastata del proprio campo, un’altra ancora - in una democrazia pluralista - conquistare e soprattutto mantenere la guida di un intero Paese.
Esiste un tema legato a Giorgia Meloni e al "rischio fascismo"?
Ritrovare i democratici uniti a cantare "Bella Ciao", il canto della libertà che interpella oramai tutti i cuori attraversando e superando i confini di parte, sarebbe come riconoscere la più cocente delle nostre sconfitte. Che i tre quarti di secolo che ci separano dal ’45 sono passati invano. Con l’aiuto di democratici di molte, diverse, e spesso opposte provenienze siamo venuti a capo di ben altri pericoli. Son sicuro che anche questa volta ce la faremmo.
Che effetto le fa vedere Berlusconi pronto a candidarsi ancora? E sentirlo dire che se passasse il presidenzialismo Mattarella dovrebbe dimettersi?
Un miracolo. Il più grande venditore del mondo forse sarebbe riuscito a rifilare, almeno a quelli della mia età, anche l’illusione di una eterna giovinezza. Poi basta una frase come quella sul capo dello Stato per far capire, all’improvviso, che anche il suo tempo è passato. È stata una provocazione senza senso: una banalità dal punto di vista istituzionale e, dunque, una stupidaggine da quello politico.
Pensi alle ultime scelte di Enrico Letta: ha sbagliato o no?
Solo la sera del voto si potrà rispondere. Quella di Letta è una scelta. Una scelta chiara, legittima e coraggiosa. Quella che Bettini ha definito una «scelta unitaria fino al punto di rischiare l’autolesionismo». Tenere insieme il Pd, la cui unità è messa a durissima prova sui tavoli delle candidature. Ma ancor prima del partito tenere insieme la sinistra, quella interna ed esterna al Pd, senza alcuna esclusione né distinzione tra i sostenitori e gli oppositori di Draghi. Tenerla insieme tutta e, intorno ad essa, aggregare tutte le voci possibili, dai Radicali ai cattolici di Demos, con l’obiettivo primario di contrastare il pericolo rappresentato dalla destra. Naturalmente, è appena il caso di dirlo, all’infuori di Conte e di Renzi, il più recente e il più antico degli avversari del suo partito.
Lei che cosa avrebbe fatto?
Una volta aperta la crisi a seguito del contrasto tra sostenitori e oppositori dell’azione di Draghi, io avrei lavorato ad una coalizione che unisse tutti e solo i difensori del governo. Tutti e solo. Ma il segretario è lui. È giusto che sia lui a scegliere la meta e a indicare la strada.
I 5 stelle sono davvero finiti?
Venti giorni fa li avrei detti in gravissima difficoltà. L’approfondimento della rottura con Letta e la discesa in campo di Grillo, che sul limite dei due mandati ha preso una decisione che a Conte non sarebbe riuscita, hanno offerto al Movimento l’identità che avevano smarrito. Quella populista delle origini, non certo quella progressista cantata dal Pd con l’illusione di egemonizzare così gli "antichi barbari".
Renzi e Calenda presentano il Terzo polo.
L’assetto bipolare presente li esclude e loro giocano in difesa. Ma nella democrazia maggioritaria che affida agli elettori la decisione sulla direzione del governo, quella per cui mi sono sempre speso, già dire terzo e non invece nuovo polo significa evocare il ritorno a un tempo che speravo superato. Diciamo che la sola presenza sulla scena di un Terzo polo, incarnato per di più da esponenti che in passato avevano difeso un’altra idea di democrazia, sta da sola a dimostrare il fallimento di una fase della Repubblica più che ad annunciarne un’altra.
Come valuta l’operato del governo Draghi?
Di Draghi possiamo dire che aveva aperto la speranza di un’Italia finalmente ammessa al tavolo delle decisioni che nel mondo contano, certo per l’autorevolezza della guida, ma soprattutto perché era messa al servizio di scelte adottate nella consapevolezza delle compatibilità interne ed internazionali.
Per Renzi e Calenda un voto senza vincitori potrebbe mantenerlo a Palazzo Chigi.
Già il fatto che sia cullata e diffusa la speranza di un voto nullo è la prova della crisi della nostra democrazia. La sfiducia in noi stessi e la resa all’idea di un commissariamento eterno del Paese.
Vede un rischio astensionismo legato a un Paese distante dalla politica?
Uno spettacolo inguardabile. Basta leggere i giornali, soprattutto quelli locali, che da giorni danno conto delle resse e delle risse per decidere non quelli che saranno i candidati, ma quelli che saranno gli eletti lasciando alla campagna elettorale e al voto finale solo la decisione su quanti toccheranno ad un partito e quanti a un altro.