Intervista. «L'effetto crescita non ci sarà. Ad aumentare sarà il debito»
Paolo Manasse, ordinario di macroeconomia e politica economica politica all'Università di Bologna
Paolo Manasse, docente di macroeconomia e politica economica all’Università di Bologna, ha letto i numeri della nota di aggiornamento al Def e non si fida per niente: né della crescita prevista per il Pil né, di conseguenza, delle prospettive di discesa del debito pubblico.
Che cosa non la convince di una previsione di crescita del Pil dell’1,5% per il prossimo anno?
Può anche essere che questa manovra dia una spinta di breve termine sul Pil del 2019, ma è molto improbabile che questo effetto continui. Hanno ridotto al minimo tutte le spese che si potevano immaginare per favorire la crescita, dalla riduzione delle tasse all’aumento degli investimenti pubblici, per privilegiare spese improduttive come quelle per le pensioni o per il reddito di cittadinanza. Questa manovra avrà effetti espansivi molto ridotti.
Eppure la nota dice che il rapporto debito-Pil dovrebbe scendere al 126,7% nel 2021.
Previsioni di crescita del Pil così alte sembrano fatte apposta per permettere al governo di dire che il debito rimarrà stabile. Questo è abbastanza preoccupante, perché invece per finanziare questa manovra il debito aumenterà: se guardiamo alle previsioni di inflazione e crescita condivise dalle organizzazioni internazionali vediamo che l’aumento del rapporto debito-Pil sarà inevitabile.
Il contenimento del debito quindi è rimandato ancora una volta?
Ho fatto delle stime: se ipotizziamo che l’inflazione sia in linea con gli obiettivi della Bce, attorno all’1,9%, e che il tasso di crescita sia in media dell’1%, come prevede la maggioranza degli analisti, risulta che l’Italia dovrebbe ogni anno fare un avanzo primario (cioè un surplus di entrate rispetto alle uscite del bilancio pubblico, senza considerare le spese per interessi, ndr) pari al 4% del Pil solo per portare il debito pubblico al 100% in 20 anni. E bisogna anche considerare che i tassi di interesse stanno aumentano in tutto il mondo, rafforzando questo “effetto palla di neve” sui costi del nostro debito pubblico.
Fare un surplus del genere sembra impossibile.
Difatti secondo me il governo si sta mettendo in una posizione difficile. Nelle manovre future serviranno misure molto restrittive, come una patrimoniale, che nessuno ovviamente vuole fare. Oppure, nel caso peggiore, rischiamo un contrasto con l’Europa e quindi uno scenario di uscita dalla moneta unica, un sentiero che presenta molti rischi.
Lei teme che il governo voglia portarci fuori dall’euro?
Quello che è successo negli ultimi giorni, con la “correzione” del deficit per gli anni successivi, mostra che l’esecutivo sa anche tenere conto di quello che succede. Però vedo anche che da un lato l’Europa, pur volendo evitare lo scontro, difficilmente potrà piegarsi a una violazione così palese delle regole e dall’altro il governo non se ne cura. Non hanno nemmeno provato a cercare giustificazioni, sfidando invece apertamente Bruxelles. Nella maggioranza e anche nel governo c’è chi vedrebbe abbastanza bene un’uscita dall’euro. Spero non prevalga.
Da economista la sorprendono le scelte dei colleghi Tria e Savona?
Tria forse per ambizioni legittime ha accettato questo ruolo pensando di potere governare la situazione. Ora sta pagando questa illusione in termini di credibilità personale. Di Savona mi sorprende vederlo ergersi a paladino del governo del cambiamento, lui che è stato un vero boiardo di Stato e per decenni ha avuto posizioni di potere in ministeri, banche, Banca d’Italia e Confindustria.
Savona ha ribadito anche mercoledì che con la revisione della Fornero, per ogni pensionato in più ci saranno due giovani che entreranno nel mondo del lavoro.
Certo, l’ambizione gioca brutti scherzi. Parliamo di un’economista che non fa ricerca da quarant’anni, che io sappia, forse le sue idee sono un po’ obsolete. Sembra ragionare secondo il modello “superfisso”, un concetto iperbanale di economia dove tutto è immobile, anche il numero dei posti di lavoro, e prescinde dalle decisioni di persone, imprese e mercati. Trascura che nella realtà ogni anno si creano e si distruggono centinaia di migliaia di posti di lavoro e per fare in modo che il lavoro aumenti bisogna che le aziende crescano e realizzino i propri obiettivi. Se invece aumentiamo i contributi per fare pagare un numero crescente di pensioni a un numero calante di lavoratori scoraggiamo le assunzioni e, con l’aiuto del reddito di cittadinanza, scoraggiamo anche la propensione al lavoro.
Come lei, diversi autorevoli economisti sono molto critici con le strategie del governo. I sondaggi dicono comunque che il sostegno al governo resta alto. Chi sbaglia?
Dico solo anche anche i governi che hanno portato in bancarotta i paesi dell’America Latina hanno goduto di moltissima popolarità. Spero nessuno voglia seguire il loro esempio.