Editoriale. Le carceri in Ungheria e le nostre. La dignità calpestata
Al di là delle inevitabili (ma davvero?) polemiche politiche di casa nostra, dove ormai la polarizzazione delle posizioni investe in maniera desolante ogni argomento, la vicenda giudiziaria e umana di Ilaria Salis ripropone il tema del rispetto dello stato di diritto all’interno dell’Unione Europea. Un tema centrale per il futuro della Ue. Non soltanto perché di questo si è nuovamente parlato ieri a Bruxelles, nel corso del Consiglio straordinario, come condizionalità per l’erogazione dei fondi comunitari, proprio in relazione all’Ungheria, dove la nostra connazionale è detenuta in attesa di giudizio. La riflessione, infatti, deve andare necessariamente oltre le sanzioni formali che possono essere comminate al Paese governato da Viktor Orbán e oltre il caso Salis, che immaginiamo non sia una rarità nell’ambito dell’amministrazione della giustizia magiara.
Un po’ tutti, in effetti, siamo rimasti sorpresi nell’apprendere che in Ungheria il reato di “lesioni potenzialmente mortali” (comparabile con qualche approssimazione al nostro “lesioni aggravate”) sia punibile nel massimo con 24 anni di reclusione e che la pubblica accusa abbia proposto a Salis di patteggiare ben 11 anni.
Tutti (o quasi) ci siamo indignati quando abbiamo visto le immagini della donna condotta nell’aula del tribunale in catene alle mani e ai piedi e “al guinzaglio” di un’agente di polizia.
Liquidare il tutto obiettando che «ogni Paese punisce come vuole» - come pure è stato fatto, qui da noi - non può essere un’opzione.
La questione riguarda infatti la sussistenza o meno di standard quanto meno accettabili di garanzie, perciò riguarda di fatto il rispetto della dignità della persona. Di tutte le persone.
Anche dell’imputata Salis, che deve essere considerata innocente fino a prova contraria e che, per altro, tale si è sempre dichiarata rispetto ai fatti contestati. Non a caso la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nei colloqui avuti con l’omologo (e da ieri anche alleato nel partito europeo dei Conservatori) Orbán ha chiesto che alla nostra connazionale «venga riservato un trattamento di dignità, rispetto e un giusto processo».
Purtroppo, però, se i racconti filtrati dal carcere di Budapest e le immagini giunte dal tribunale non mentono, fin qui dignità e rispetto sono mancati. Speriamo davvero che qualcosa possa cambiare. Ma speriamo anche che questa storia insegni a noi italiani a indignarci sempre, quando si parla di carceri e di diritti negati.
Perché se è vero che la vista delle catene «impatta», per dirla con la premier italiana, non altrettanto fa la notizia che Ilaria Salis è in carcere in attesa del processo già da un anno. Forse perché anche in Italia il ricorso alla custodia cautelare è più che frequente, tanto frequente da aver suscitato più di una volta i richiami dell’Unione Europea per il largo uso che se ne fa e per la durata eccessiva della detenzione prima della (eventuale) condanna.
La relazione della prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano per l’apertura dell’anno giudiziario 2024, datata 25 gennaio, certifica che nelle nostre prigioni sono presenti oltre 9.200 detenuti in attesa di prima sentenza. Finalmente in calo - ha sottolineato l’alta magistrata - grazie al «principio di proporzionalità nell’adozione dei provvedimenti limitativi della libertà personale» e al «ricorso alla custodia cautelare come extrema ratio».
Misure per la verità introdotte con non poca fatica nell’ordinamento e sempre a rischio di cancellazione a opera di coloro, e sono tanti, che confondono la «certezza della pena» con il «buttate la chiave, marciscano in galera», trascurando il fatto che non v’è pena certa (e quindi giusta) senza la certezza del diritto.
Sicuramente non è giusta, in quanto non prescritta da nessun codice né tanto meno dalla Costituzione, la pena accessoria delle condizioni di vita nelle carceri italiane, dove al 31 dicembre 2023 erano presenti quasi 63mila persone (60.100 uomini e oltre 2.500 donne) a fronte di una capienza complessiva ufficiale di 51.179 posti. In realtà, secondo il Garante nazionale dei detenuti, i posti effettivi - tolti cioè quelli inagibili per vari motivi - sono solo 47.300. Per un tasso di sovraffollamento medio pari al 127,4%, 152 morti negli ultimi due anni, 13 suicidi soltanto nel primo mese del 2024 (nel 2023 sono stati 69 e nel 2022 85, fonte ristretti.org). Per questo il nostro Paese è sotto costante monitoraggio da parte del Consiglio d’Europa e a rischio di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Pensiamo anche a questo, quando (più che giustamente) reclamiamo un trattamento equo e umano per Ilaria Salis da parte della magistratura e del sistema penitenziario ungherese. Perché Roma non sarà Budapest, ma non è nemmeno un modello europeo di esecuzione penale.