Quest’anno l’aria di Rosarno profuma di arance. Sono gli agrumeti pieni di frutti che probabilmente nessuno raccoglierà. All’alba, fino a un mese fa, davanti alla statua della Madonnina a Bosco, sulla statale 18, i caporali con i furgoni sceglievano i più robusti tra almeno un migliaio di braccianti assiepati. Ma stamattina alle sette non si vede nessuno. Trenta giorni dopo la rivolta dei neri, gli scontri con i rosarnesi e la guerriglia urbana con i picciotti delle ’ndrine, il trasferimento delle forze dell’ordine di 1200 immigrati africani a Crotone e a Bari, per trovare chi vuole raccogliere le arance bisogna puntare verso il centro. Davanti all’ufficio postale che apre, ecco capannelli di bulgari. Squilla il cellulare, rispondono e poco dopo arriva un’auto che li carica. Saranno al massimo un centinaio. Verso Nord si vede camminare qualche lavoratore africano sul ciglio della strada in divisa d’ordinanza da bracciante, maglione e stivali da pescatore. Poi qualche gruppo nelle strade di campagna verso Laureana. In media si lavora in un appezzamento su quattro. Un mese dopo sono rientrati pochi immigrati a Rosarno. Un centinaio di africani non è mai partito in realtà, si è trasferito dall’ex Opera Sila nelle campagne di Mileto e li ha ricreato una baraccopoli dove vivono in condizioni inumane. Li aiutano i volontari dell’associazione 'Il Cenacolo'. «Ci siamo nascosti - racconta Michael, un giovane immigrato della Guinea Conakry - e abbiamo ripreso dopo una settimana a raccogliere agrumi. Prendiamo 25 euro alla giornata, ma nessuno lavora tutti i giorni quest’anno». È il mantra che senti ripetere anche alla collina di Rizziconi, in contrada Marotta, appena fuori Rosarno. Su un terreno confiscato al clan degli Albanese, si era stabilita una folta colonia di africani in una baraccopoli. Dopo il loro trasferimento, mani ignote e mafiose, che non gradivano la nuova destinazione d’uso, hanno bruciato tende, baracche e materassi. E quando sono tornati circa 140 immigrati, ai volontari della Caritas parrocchiale di Drusi hanno fatto sapere che era meglio girare al largo. Nonostante ciò gli aiuti sono ripresi anche perché i neri hanno perso tutto e dormono per terra per paghe da fame, quando li pagano. «Non si lavora - si lamenta Osman, gigante del Burkina Faso, scalzo veterano del gruppo che si scalda attorno al fuoco alle quattro del pomeriggio - siamo stati portati chi a Crotone e chi a Bari, ma poi siamo tornati qui perché non sappiamo dove andare. Paura? No, la gente ci ha sempre aiutati, sono stati i mafiosi». Dall’altra parte del campo c’è l’accampamento dei maliani, tutti ragazzini nemmeno ventenni. Stesso ritornello, stesso freddo. «Ci sono molti controlli - aggiunge Philippe, 20 enne - e i proprietari hanno paura di prendere multe». Le forze dell’ordine hanno infatti intensificato i controlli, dopo anni di assenza, e a partire dalla metà di gennaio hanno inflitto multe per circa mezzo milione di euro ad aziende che impiegavano manodopera in nero, quasi tutti bulgari. A Rosarno oggi ci saranno al massimo 250 africani e un centinaio di europei. Cosa è cambiato? Fino al 2008 l’Ue, a sostegno dell’agrumicoltura, pagava la produzione 6.000 euro a ettaro. Poi ha capito che da queste parti incentivava la truffa delle 'arance di carta'. Bastava portare più volte lo stesso carico e il gioco era fatto, così ora Bruxelles paga 1.400 euro ad ettaro. Don Pino Demasi, vicario episcopale, mette in fila gli avvenimenti. Sostiene che le vicende calabresi sono sempre complesse.. «Fino al 2008 le arance a Rosarno convenivano a tutti - ragiona - ai piccoli produttori, perché la terra qui è divisa in tanti piccoli appezzamenti, agli immigrati che lavoravano in nero, ai tanti braccianti italiani che risultavano in malattia o in cassa integrazione. Ai politici e ai sindacati e alla ’ndrangheta, che ci guadagnava qualcosa e soprattutto riscuoteva consenso e controllava il territorio. Dal 2009 l’affare europeo è sfumato. Quindi i lavoratori africani, che da anni subivano prepotenze da parte dei giovinastri controllati dalle cosche e avevano alzato la testa già nel dicembre 2008, dovevano sloggiare». A maggior ragione, dopo aver reagito all’aggressione del 6 gennaio. «Certo, la reazione violenta degli africani è stata un errore, ma non è stato un caso di razzismo perché i rosarnesi reagirono a caldo solo la prima sera. Tra i neri giravano voci di omicidi e tra i bianchi di donne picchiate fino ad abortire. Non so chi le mise in giro - prosegue don Demasi – ma in seguito la violenza venne gestita da squadracce di giovinastri dirette dai boss che avevano ordinato l’allontanamento dei neri. Ora non so quale sarà il futuro degli agrumi e se converrà continuare. Penso che in città, in quei giorni, ci sia stato un deficit di umanità. Abbiamo dimenticato la nostra storia di povertà, di lotte bracciantili e di emigrazione». Prima di partire entro nell’ex Opera Sila, tuttora presidiata dalla polizia. Qui davanti si è combattuto. Dentro il tempo è fermo a un mese fa. Nei capannoni, persino nei silos, scarpe, abiti appesi lasciati in fretta, tende e coperte in mezzo alla spazzatura. Un triciclo e due biciclette piccole abbandonate testimoniano il passaggio di alcuni bambini per questo inferno dove vivevano circa 1.200 persone. Nel silenzio degli agrumeti sembra un monumento al nuovo schiavismo di questo secolo.