Paura contro fiducia. In qualsiasi società la partita si gioca tra questi due contendenti, e quando a vincere è la prima la convivenza va in crisi. Lo spiega, all’indomani dalla strage al Palazzo di Giustizia milanese, il sociologo Aldo Bonomi, e d’altra parte lo sentiamo sulla nostra pelle, ormai resi incerti quando progettiamo di imbarcarci su un aereo, di partire in crociera, di visitare un museo. Da giovedì persino di entrare in un tribunale. Pericolo reale o percezione amplificata? E che fare? Arroccarci in difesa o continuare a giocare la nostra partita quotidiana della vita? La tentazione è di esigere un controllo sempre più serrato delle nostre città, anche a discapito della privacy e della nostra stessa libertà, ma fino a che punto è giusto? E soprattutto serve? «Le forme di convivenza sono due, fiducia e paura, ed entrambe alimentano se stesse: più una società 'usa' la fiducia e più questa cresce, ma purtroppo lo stesso accade con la paura – spiega Bonomi –. Il vero problema è che oggi siamo in una fase storica di cambiamento che alimenta più la paura che la fiducia».
Come siamo arrivati a questo stato d’animo collettivo? Se le forme di convivenza sono andate in crisi ciò è determinato da una dimensione geopolitica (l’area del Mediterraneo oggettivamente oggi produce paura) e geoeconomica (la crisi che produce incertezza). Fenomeni come questo dovrebbero indurre a una riflessione profonda, che invece non viene fatta da chi di dovere... Non intendo affatto minimizzare i pericoli, oggi ci sono tutti, ma temo ancora di più gli 'imprenditori politici' della paura, coloro che la alimentano e non fanno nulla per comprenderne le cause. Il risultato è che siamo costretti a vivere più con la forma dell’incertezza che con la fiducia, e così rinunciamo alla relazione con l’altro.
Il rischio, per autodifesa, è creare società chiuse in se stesse, diffidenti, non inclusive. Siamo condannati a cambiare in peggio, per sopravvivere? Sarebbe la fine. Non possiamo, in nome di questa paura, rinunciare alla nostra privacy, alla nostra prossimità, alla voglia di comunicare, di stare con gli altri. Se ci reinserissimo tutti in una guerra civile dell’uno contro l’altro verrebbero meno le forme di convivenza. Ovviamente non possiamo essere ingenui, dobbiamo esercitare un’azione di protezione e di controllo dello spazio pubblico, perché è lo spazio irrinunciabile dell’incontro e della democrazia. Ma non per questo dobbiamo cadere negli schemi sociali di tipo americano, quelli che producono da una parte le 'gated community', comunità residenziali chiuse con guardie all’esterno, e dall’altra i ghetti: se c’è una specificità europea, e ancor più italiana fin dall’epoca dei Comuni e del Rinascimento, è una città che tiene insieme tutti, ed è questo il modello da difendere. Ovvio che gli spazi 'sensibili' vanno protetti, la piazza, il centro, il metrò, il Tribunale... ma questo è tanto scontato quanto insufficiente. Riempire una città di guardie, telecamere e ogni sorta di controllo dall’alto non restituisce certo la fiducia, anzi, semmai aumenta la tensione nella gente.
Che cosa invece sarebbe necessario? La fiducia risorge e si allarga quando il controllo viene dal basso del territorio, dal sociale. Un tempo avveniva così, quando i fenomeni di devianza erano sanciti e controllati dalle forme di convivenza e guai a non rispettarle.
C’era un forte tessuto sociale, insomma? È questo il nodo. Siccome ci sono i devianti crei i campi? Non è così che si risolvono i problemi. Bisogna invece ripristinare quei meccanismi di controllo sociale che in passato hanno creato l’inclusione. Questa è una società che ce l’ha fatta, non scordiamolo, abbiamo avuto immigrazioni enormi eppure è andata bene... È ovvio che oggi dobbiamo lavorare sulla sicurezza, ma la paura non si abbassa se non si intraprende anche un lavoro sociale sulla convivenza, che permetta di riprodurre la fiducia e l’inclusione. Altrimenti si vive tutti molto male, infelici, scontrosi, e questa è la benzina peggiore sul fuoco di chi quella paura la vuole provocare. La vera reazione non è barricarsi ma creare momenti di socialità, uscire di casa e riappropriarsi degli spazi, come hanno fatto i parigini dopo la strage di
Charlie Hebdo, o i tunisini, e gli studenti in Kenya... Naturalmente la manifestazione di un giorno non basta, serve una antropologia quotidiana dello spazio pubblico e del controllo sociale, ma quella è la strada giusta, irrinunciabile, l’unica vincente.