«Noi impariamo osservando la realtà, non applichiamo nostre idee alla realtà»: questa frase di Don Giussani è capitale per capire come inizia l’avventura della conoscenza anche per quei ragazzi che non sopportano di studiare. A centinaia ne ho conosciuto in questi anni alla nostra scuola di cucina e di panificazione di Ca’ Edimar a Padova o nei nostri gruppi di ragazzi che, a 15-16 anni, si preparano all’esame di terza media dopo anni di fallimenti e bocciature. In Italia chi ha voglia di studiare (con tutte le mille variazioni sul tema che questo comporta) va a scuola e il sistema scolastico e formativo lo tutela. E chi non ha voglia di studiare?Una volta si diceva «va a lavorare», come se questo fosse meno impegnativo e meno faticoso o come se la fatica del lavoro fosse una specie di punizione perché non si è accettata la strada dello studio considerata più normale. Dalla mia esperienza e da quella di tanti amici in Italia che molto più di me si cimentano con queste fasce giovanili, ho capito che il problema non è inventare qualcosa per chi non ha voglia di studiare (delegando per questo il settore sociale). Il problema è non cadere nella trappola della mentalità scolasticocentrica dominante nel sistema dell’istruzione (e, in molti casi, anche in quello di troppa formazione professionale scolasticizzata) per cui un ragazzo che si ribella allo studio è stato sempre giudicato come un ragazzo che non ha desiderio di imparare, come se questo desiderio, insito in ogni uomo, fosse inesorabilmente legato al desiderio di studiare e di studiare con il metodo e gli strumenti che decide lo Stato o la Regione.Eppure già dagli anni ’80 del secolo scorso le raccomandazioni dell’Europa agli Stati membri affermavano che i sistemi scolastici dovevano essere organizzati in modo da rispettare tempi e modalità con cui ogni allievo è capace di esprimere le proprie potenzialità e le proprie attitudini. C’è bisogno di formazione libera – che il ragazzo sente come un “vestito su misura” – e non ingessata dentro gli schemi, come se uno fosse costretto, invece, a prendere o un vestito che gli sta troppo largo o un altro che gli sta troppo stretto. Non affermo questo come frutto di un’analisi, ma avendo presenti le centinaia e centinaia di ragazzi e ragazze di Padova che, senza questa opportunità (che noi abbiamo chiamato Scuola Bottega), sarebbero rimasti per strada o al massimo sarebbero entrati in circuiti lavorativi precari. E credo di non essere il solo in Italia ad aver sperimentato ciò. Qualcuno ci ha chiamato i “nuovi Don Bosco”, visto che lui è partito certamente con la libertà di creare una proposta adeguata ai ragazzi che incontrava. E invece siamo ancora incartocciati in un sistema scolastico e formativo del “prendere o lasciare” anziché caratterizzato da un’offerta di una formazione intesa come scoperta di talenti in vista del lavoro, con al centro le effettive peculiarità del singolo allievo e l’obiettivo del suo ingresso nel mondo del lavoro con competenze veramente spendibili: è quello che gli esperti di tutta Europa, e non solo, chiamano l’apprendere per capacità. Questi ragazzi cosidetti “difficili” hanno bisogno di percorsi di apprendimento guidato, finalizzato a offrire sapere e competenze acquisite, condividendole sotto forma di insegnamento e trasmissione di esperienza, per favorire la loro crescita personale e professionale e di essere coinvolti in processi in cui si offre loro strumenti che permettano di prendere consapevolezza delle proprie potenzialità.