Ancora sul caso Ferragni. Nuova industria degli influencer. La trappola dei “like”
Rassicurazione per i lettori che ci chiedono di smetterla di parlare del caso del pandoro di Chiara Ferragni: vi capiamo e siamo dalla vostra parte. Vorremmo anche noi non doverci occupare di questa giovane imprenditrice di successo, specializzata nel promuovere oggetti caratterizzati da diversi gradi di utilità (o inutilità). Di più: ci piacerebbe non indugiare sul nome della più celebre delle influencer come trascuriamo quelli dei concorrenti del Grande Fratello per una consolidata esperienza nel non dare conto di notizie futili sulla vita delle celebrità.
Stavolta però è diverso, sarebbe sbagliato non scriverne. Il caso della beneficenza con il pandoro “Pink Christmas” di Ferragni e Balocco che è stato sanzionato come «pratica commerciale scorretta» dal garante della Concorrenza e del mercato e che ha spinto la procura di Milano ad aprire un’indagine con l’accusa di truffa aggravata da minorata difesa non fa parte della vita “privata” postata sui social da Chiara Ferragni – che pure, per motivi non sempre comprensibili, interessa decine di milioni di persone – ma riguarda la sua attività imprenditoriale e, più in generale, la gigantesca economia dei social network, della quale gli influencer sono il principale motore.
È vero che Fenice e Tbs Crew, le due aziende dell’influencer, non sono società enormi, ma non sono neanche micro-imprese: nei piani dovrebbero avere chiuso il 2023 con circa 90 milioni di euro di ricavi. Ferragni è un vero “leader globale” nel settore dell’influencer marketing, che secondo stime della Commissione europea vale già 20 miliardi di euro. E continua a crescere.
La valanga del pandoro che sta travolgendo Ferragni da metà dicembre, tra chiusure anticipate di contratti, campagne promozionali sospese e cronache di negozi semivuoti, merita di essere raccontata e analizzata perché mostra la straordinaria fragilità di questo nuovo settore economico.
Un’azienda “normale” può subire un danno di immagine e uscirne con diverse strategie, a partire dal concentrarsi sulla propria attività caratteristica. Per un’influencer come Ferragni, però, l’immagine è l’unico “asset” di valore. Un danno come quello che sta subendo in queste settimane non è un problema, rischia di essere una catastrofe.
Quale azienda sceglierà di affidare la propria pubblicità a una testimonial che viene, al momento, solo indagata per truffa? A chi potrà proporre post promozionali un’influencer a cui hanno scritto “truffatrice” e “bandita” sulla vetrina del negozio che porta il suo nome prima ancora che l’iter giudiziario sia iniziato? Quanto tempo Ferragni potrà restare in “pausa” dai social network senza iniziare a sparire dagli algoritmi e dalla memoria degli utenti?
L’esito delle indagini, più che mai in questo nuovo settore dell’influencer marketing, pare già contare solo relativamente.
Marshall McLuhan, tra i più grandi teorici dei media, insegnava che «il medium è il messaggio»: i social network in generale, e Instagram più di altri, sono probabilmente il mezzo di comunicazione sociale più sbrigativo mai conosciuto dall’umanità. I follower non sono incoraggiati ad approfondire, ma scrollano spietatamente i contenuti per soffermarsi qualche secondo su ciò che può sembrare interessante.
L’intrinseca superficialità del mezzo è la grande alleata di chi deve vendere e l’acerrima nemica di chi deve spiegare. Tra la gogna della regina delle influencer raccontata una puntata alla volta e la noiosa cronaca di un eventuale “non rinvio a giudizio” a livello di like non c’è partita. È la dura legge dei social, e dell’immagine. Ferragni è la prima a saperlo.