Crisi di governo. Numeri incerti e il Pd frena sui responsabili. Ma Conte tira diritto
Punta sui responsabili. Il premier Giuseppe Conte
La crisi come un’altalena di numeri, umori e posizioni. In cui ciò che sembrava consolidato poche ore fa, ora sembra svanire dalle mani. L’unico che sembra alieno a piccoli e grandi smottamenti è Giuseppe Conte. Palazzo Chigi lo descrive intento unicamente al discorso di lunedì alla Camera: Europa, patto di legislatura fino al 2023, apertura «alla luce del giorno» a «tutti i costruttori». E parole dure, inesorabili e definitive per Matteo Renzi con un lungo elenco di «proposte accolte» che però non sarebbero bastate ad evitare il ritiro delle ministre.
Tuttavia, intorno a Palazzo Chigi è un insieme di piccoli e grandi riposizionamenti. Il punto è se la pattuglia di responsabili che si sta formando alle Camere - e soprattutto al Senato - sia in grado di assicurare numeri e prospettive.
Un dubbio intorno al quale il Pd costruisce un lento ma costante martellamento delle certezze granitiche di Conte. Il pallottoliere dem segna 154-155 al Senato, numeri probabilmente sufficienti a conservare la «fiducia» ma al di sotto di quel 161 che indica la maggioranza assoluta. Si configuerebbe allora per il premier una vittoria a metà che aprirebbe una sorta di "terzo tempo" della crisi.
Inizia il vicesegretario dem Andrea Orlando di buon mattino, ricordando che «un numero in più è diverso da governare». Poi incalza il leader Nicola Zingaretti mettendo le mani avanti: dopo martedì bisogna riprendere in mano la verifica sui temi sollevati dal Pd. Praticamente, l’intera agenda di governo e il rimpasto. Un modo per avvertire il premier: i dem possono seguirlo nella "conta" ma non andare avanti con un esecutivo così com’è e con i due ministeri di Iv affidati ai "responsabili". «Non dobbiamo sopravvivere ma dare all’Italia un governo più autorevole, unito, rapido», dice il presidente dei deputati Graziano Delrio.
La frenatina dem sui responsabili è il riflesso di uno spiazzamento operato da Matteo Renzi con un’intervista a La Stampa: «Potremmo astenerci», dice l’ex premier a proposito dei voti di lunedì e martedì. Poi in serata ci torna su: «Dipende da quello che dirà Conte». E assicura che sul premier «non ci sono mai stati veti».
Per alcuni è un modo di tenere insieme gruppi in ebollizione. Per altri è un modo di restare o rientrare in partita, offrendo l’astensione come segno di disponibilità a riprendere il dialogo dopo il doppio voto di fiducia in Parlamento. Il capogruppo renziano al Senato Davide Faraone va oltre: «Se Conte scioglie i nodi noi ci siamo». Addirittura, la voce è che Renzi voglia assicurare il proprio appoggio al Conte-ter, rinunciando anche al Mes.
Palazzo Chigi non ci crede: «Non si torna indietro», liquida duro Conte. Che vuole invece spingere Iv verso la sfiducia e continua a lavorare al gruppo dei «costruttori» offrendo a chi aderisce la prospettiva di diventare l’architrave della futura lista contiana. È convinto, il premier, che se Pd-M5s-Leu continuano a sventolare lo spettro del voto anticipato, si riuscirà ad andare anche oltre quota 161. E quando in Iv capiscono che a Palazzo Chigi tirano dritto, reagiscono stizziti: «Hanno già l’accordo, Binetti alla Famiglia, De Bonis all’Agricoltura e Vecchione ai Servizi».
Al Pd fa comodo, però, la mezza apertura di Renzi. Perché per i dem non finisce martedì. Nemmeno per M5s, in realtà. Che ha due questioni. Una è Alessandro Di Battista, che spinge Conte a «non farsi scrupoli» con Renzi e si autopropone per «collaborare, non per forza in un ministero». L’altra questione è la fronda non esigua degli scontenti, che vuole un rimpasto in cui una nuova squadra governativa di M5s composta da «diverse anime».
Uno degli scenari è che Conte prenda la doppia fiducia e da lì riparta, come premier "rifiduciato" che non deve dimettersi, per siglare il patto di legislatura, il rimpasto e allargare ulteriormente la truppa dei «costruttori». Meno forte è l’ipotesi che vada a dimettersi lunedì dopo il discorso alla Camera. Ma se le eventuali astensioni di Italia Viva risultassero decisive per non far cadere il governo, il suo piano si complicherebbe. Nemmeno i dem credono che Iv possa «tornare subito al tavolo», ma «mai dire mai, la politica ha tempi lunghi», dice Orlando.
Insomma tatticismi. Un’altalena che vede i futuribili "responsabili" attenti a ogni sospiro. E se Conte e Zingaretti usassero la minaccia dei «costruttori» per recuperare Renzi, avverte Clemente Mastella, l’operazione di soccorso andrebbe subito in fumo. Né può pensare, il premier, di incassare una fiducia che prescinda da Renzi senza aver messo sul tavolo lo «scenario complessivo» (i posti al governo e la prospettiva politica della lista contiana).
Il centrodestra è costretto ad assistere. Salvini, Meloni, Tajani, Lupi e Cesa si vedono ogni giorno. «Mi fa schifo questa compravendita al Senato, ma vedrete che verranno M5s da noi», dice il capo della Lega. Tenta di esorcizzare, Salvini, la fuga verso Conte di centristi e pezzi di Forza Italia. La coalizione è pronta, nel momento in cui il premier restasse sotto quota 161, a chiedere l’intervento del Quirinale. «Stanno a 151», è la previsione di Tajani.