La storia. «Non volevo essere magra, volevo essere vista». Ludovica e l'anoressia

Un disegno di una paziente in cura per disturbi alimentari all'Auxologico di Milano
Domani ricorre la Giornata mondiale dedicata ai disturbi del comportamento alimentare. La testimonianza di Ludovica, che l’Istituto Auxologico di Milano ha salvato dal “male di vivere”.
Non avere fame, averne troppa, contare e ricontare le chilocalorie, non uscire più di casa, voler uscire dal proprio corpo. Ludovica (nome di fantasia), mentre parla, muove le mani, scuote la testa, cerca di raccontare attraverso i suoi gesti quello che ha vissuto. Le sue parole non bastano per riportare l’energia che trasmette, l’intensità palpabile della sua storia. Eppure è lei stessa a dire che le parole hanno fatto tanto, soprattutto quelle è riuscita a dire un giorno: «Sono malata». Avere un disturbo del comportamento alimentare significa quasi sempre non riuscire a riconoscerlo e a riconoscersi. «Io sapevo di essere malata – spiega Ludovica con voce ferma – ma finché non sono riuscita a dirlo ad alta voce, era come se non ci credessi davvero». Questa presa di coscienza ha segnato un punto di svolta nel suo percorso di guarigione. «Ludovica era già in cura da qualche mese, ma non credeva di essere abbastanza malata da meritarsi questo percorso», afferma la dottoressa Nicoletta Polli, responsabile del centro di cura per i Disturbi del comportamento alimentare (Dca) all’ospedale Auxologico San Luca di Milano. L’approccio qui è multidisciplinare, Polli è alla guida dell’unità da vent’anni, durante i quali il gruppo di lavoro ha affinato le strategie terapeutiche, tra sedute di terapia psicologica di gruppo e altre attività a scelta, come storytelling, psicodramma, danzaterapia, musicoterapia e arteterapia. «Da noi il percorso terapeutico è semiresidenziale. Ogni giorno vengono al massimo 16 ragazze per circa cinque ore. Si dividono tra il turno del mattino e quello pomeridiano e ogni giorno ci sono attività diverse. I due momenti fondamentali sono i pasti assistiti: una merenda e il pranzo o la cena sotto la supervisione delle dietiste», spiega Polli.
La riabilitazione semiresidenziale dura fino a nove mesi per obbligo di legge, ma di solito i primi tre servono a interrompere la perdita di peso. La mamma di Ludovica, che è arrivata al San Luca nell’aprile 2022 quando aveva 16 anni, racconta di quei tre mesi come il periodo peggiore per lei: «Finalmente mia figlia era in cura, ma non migliorava. Volevo risposte ed ero arrabbiata, finché non ho deciso di affidarmi completamente a chi la curava e fare un passo indietro». Mentre parla, la mamma di Ludovica è seduta tra sua figlia e la dottoressa Polli, che annuisce e sorride complice, prima di aggiungere: «Organizziamo incontri con i genitori per aggiornarli e confrontarci. È importante capire come le ragazze si comportano a casa, come reagiscono le famiglie, ma soprattutto vogliamo dare gli strumenti anche ai genitori per affrontare questi disturbi».
La mamma di Ludovica ha scelto di prendersi una pausa dal lavoro per stare vicino alla figlia nel periodo più duro della riabilitazione, quando non riusciva più ad andare a scuola. «È stata una decisione forte, che non tutti si sarebbero potuti permettere – ammette – ma non potevo fare scelta migliore, non potevo lasciarla sola». Intanto, alla sua destra, Ludovica è ormai un fiume in piena. Racconta di come abbia riscoperto la vita un centimetro alla volta: «Quando sono riuscita a uscire di casa, semplicemente per portare fuori i cani, mi sono resa conto di quanto fosse piccolo quel gesto che mi richiedeva uno sforzo immenso. E di quanto fosse grande tutta la vita che mi stavo perdendo». Ludovica racconta di come a essersi ammalata sia stata la sua testa, prima che il suo fisico: «Non volevo essere magra, volevo essere vista, volevo vedere fino a che punto riuscivo ad arrivare, mettere alla prova la mia forza di volontà e la mia capacità di controllo. In realtà ero io a essere controllata dalla malattia, che mi consumava senza che neanche me ne accorgessi».
Le ragioni che portano allo sviluppo di un disturbo alimentare sono molteplici e complesse. «Sono malattie multifattoriali e si scatenano dall’interazione di vari aspetti come la vulnerabilità genetica, l’esposizione a eventi traumatici, il rapporto con la famiglia e la pressione sociale», dice la psichiatra Laura Dalla Ragione, referente del ministero della Salute per le azioni di contrasto ai disturbi del comportamento alimentare. Il paradigma contemporaneo, veicolato spesso attraverso i social, enfatizza l’immagine corporea perfetta, la magrezza come canone di bellezza, alimentando e amplificando gli elementi psicologici che portano a un disturbo alimentare. In Italia ci sono 3,6 milioni di persone in cura per disturbi alimentari, nel 2000 i casi erano circa 300mila. La crescita esponenziale evidenzia come non si tratti di fenomeni rari o limitati, ma di una vera e propria emergenza sanitaria e sociale che coinvolge persone di tutte le età, ma soprattutto le giovani generazioni. Secondo Dalla Ragione, il lockdown ha avuto un impatto devastante: «La perdita delle reti sociali e l’isolamento hanno contribuito a un aumento dei casi di anoressia: molti ragazzi hanno dovuto fare i conti con l’ansia e una ridotta interazione con gli altri». Nel frattempo, è diminuita significativamente l’età di esordio: anche bambini di 8-10 anni sviluppano queste patologie ed è una tendenza che la psichiatra descrive come «molto preoccupante, poiché i più piccoli hanno difficoltà a comprendere e gestire le emozioni che si esprimono attraverso il comportamento alimentare».
All’abbassamento dell’età e all’aumento dei casi si aggiunge anche la riduzione dei centri di cura: prima della pandemia erano 168, ora sono 132. Manca una rete uniforme e strutturata su tutto il territorio, inoltre «le cure per i disturbi alimentari non sono ancora inserite nei Livelli essenziali di assistenza (Lea), quindi non godono di un finanziamento vincolato e stabile e le Regioni devono fare affidamento su fondi variabili», dichiara Dalla Ragione. A questo si aggiunge che il 50% dei centri non accoglie bambini o preadolescenti, tagliandoli fuori dai percorsi terapeutici. Eppure, l’accesso a diagnosi precoci è fondamentale per il successo delle cure e un recupero completo. Spesso il trattamento si estende su un periodo di almeno due anni, un arco di tempo necessario per affrontare non solo la componente alimentare, ma anche i disturbi psichiatrici concomitanti (ansia, depressione, disturbi ossessivo-compulsivi). Che, a differenza di quello che si pensa, non riguardano solo le ragazze: i maschi rappresentano circa il 20% dei pazienti, un aumento significativo rispetto all’1% di dieci anni fa.
Al centro milanese dell’Auxologico però si parla solo al femminile: «I problemi dei ragazzi spesso sono diversi, legati all’attività in palestra, mentre la maggior parte delle nostre pazienti hanno disturbi di tipo restrittivo, di perdita di peso. Ci piacerebbe sviluppare dei percorsi di gruppo anche maschili, ma ora non ci riusciamo a causa del limite di posti, personale medico oberato, spazi assenti. Bisognerebbe raddoppiare tutto», evidenzia Polli. Però quello che c’è intanto è bastato per salvare la vita di Ludovica, parole sue, e di moltissime altre ragazze come lei. È tornata al centro per ringraziare le dietiste, lo psicologo, le nutrizioniste, tutti quelli che l’hanno seguita in questo percorso. Camminava sicura nei corridoi, sorridendo, emozionata. Le dita inanellate stringevano biglietti che lasciavano negli occhi di chi li riceveva una scia di stupore e commozione. In questi corridoi Ludovica si sta lasciando alle spalle forse il periodo più difficile della sua vita, e non ha neanche diciotto anni. Chi la guarda però, la vede felice, bella, giovane e soprattutto libera.