Intervista. Riccardi: «Non stanchiamoci mai di cercare vie di pace per l'Ucraina»
Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio
«Siamo in un’era di conflitti eternizzati, che si prolungano per un intreccio di interessi globali. Per questo è sempre più urgente cercare le vie della pace, del cessate il fuoco, del silenzio delle armi. Ogni giorno in più di combattimenti significa morte e distruzione». Ha toni accorati lo storico Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, protagonista pubblico e tessitore dietro le quinte di tante iniziative di dialogo e diplomazia della società civile.
Siamo entrati nel terzo anno della guerra in Ucraina, avviata dall’invasione di Mosca il 24 febbraio 2022. Che bilancio possiamo farne, professor Riccardi?
Due anni sono il momento giusto per chiedersi a che cosa serve la guerra, a che cosa è servita questa guerra. Il risultato è un Paese in grande difficoltà, con tanti morti, le città bombardate costantemente, l’economia distrutta. Colpisce andando in Ucraina vedere i mutilati di ritorno dal fronte. Nel resto d’Europa dobbiamo tornare agli anni Cinquanta, in quegli anni li ricordo anch’io in Italia. E poi tanti profughi nel Paese e in tutta Europa. Questa una guerra che continua perversamente, in modo tradizionale, con carneficine sul campo di battaglia e bombardamenti sui civili, e non si vede luce in fondo al tunnel proprio perché non si esce dal groviglio di spinte verso il ricorso alle armi come unica soluzione.
Come provare a ribaltare questa prospettiva?
Quando parliamo di pace, non lo facciamo per cosiddetto putinismo. Sappiamo bene che il sistema di potere russo è oscuro e indecifrabile, come è accaduto in queste settimane con la morte di Alexeij Navalny. Diciamo invece pace per il popolo ucraino, per il quale trepidiamo. Fin dall’inizio del conflitto, avevo lanciato un appello per Kiev “città aperta”, da preservare e riconoscere nel suo valore condiviso religioso, culturale e artistico. Non era certo aprire le porte ai russi. Da due anni, non c’è un giorno di respiro per il popolo ucraino, che consulta ogni ora le app che tracciano gli attacchi russi. Oggi incombe una prospettiva cupa, ma pensiamo a quei giorni in cui il dialogo era ancora aperto. Mi colpì allora l’intervento del premier britannico Boris Johnson, che disse ai vertici di Kiev: non dialogate. No, guerra non serve a niente, è un’avventura senza ritorno.
Come sa bene, questo doveroso appello a volte si scontra con l’obiezione che la pace equivarrebbe una resa dell’ucraina all’invasore.
I fautori della guerra a oltranza oggi, mi pare, tengono un profilo più basso. Ribadisco che personalmente sono sempre stato vicino a popolo ucraino, che ha pieno diritto a libertà e sovranità, a non cedere alla volontà della Russia di farne una propria provincia. Tuttavia, bisogna anche tenere in conto le forze in campo. La potenza russa che si rafforza dal punto di vista bellico, mentre l’Ucraina deve resistere con forze in diminuzione e, verosimilmente, non può vincere la guerra russa di logoramento.
Che cosa fare ora, quindi?
Si è trascurata colpevolmente la ricerca di canali di pace. Del resto, prima di cominciare a parlare, non si può intravedere una via. Abbiamo l’esempio di Papa Francesco che con la missione affidata al cardinale Zuppi ha cominciato ad aprire una via. Con i suoi viaggi e incontri, Zuppi ha sciolto alcune difficoltà da parte ucraina nei confronti della Santa Sede, tanto che oggi Zuppi e Parolin sono decorati da Kiev. Si è aperto un dialogo umanitario con Mosca ed è stata coinvolta anche la Cina, con un colloquio sulla pace interessante per il livello di rapporti sino-vaticani. Ho visto scetticismo sull’iniziativa di pace di Francesco, ma si manca di considerare che non si possono avere passi avanti facili. Tuttavia la missione Zuppi ha stabilito una comunicazione. Pochi paesi al mondo l’hanno aperta. Bisogna avere tenacia e pazienza in un “investimento” di medio periodo.
Quali altri spiragli intravede all’orizzonte?
Non c’è contraddizione nel perseguire un’iniziativa di pace forte a guerra aperta: non vuole dire un segno di debolezza. Si supera invece un modo isterico di vivere conflitti, esemplificato dall’Afghanistan. Prima solo guerra, guerra, guerra, poi disimpegno completo in breve tempo, senza negoziare veramente. Le conseguenze sono evidenti: un dramma per l’Afghanistan e i profughi. Non vogliamo questa sorte per l’Ucraina. Non vogliamo abbandonare Kiev, ma assicurare futuro all’Ucraina. È indispensabile riaccendere l’immaginazione della pace.
Qui sembra avere fallito l’Europa, che pure si è mobilitata per l’accoglienza e il sostegno umanitario…
Politicamente, la Ue non ha pensato a nulla di efficace per sminare il campo, far emergere un negoziato o a un cessate il fuoco. Il processo elettorale in corso finirà ora con il rallentare possibili mosse. Che invece potrebbero venire drammaticamente dagli Stati Uniti, soprattutto se vincerà Trump, anche se i suoi proclami non obbligatoriamente diventeranno scelte operative.
E dalla società civile italiana che risposta sta vedendo?
C’è stata inizialmente una reazione positiva molto forte di solidarietà. Ora un rischio di abitudine e di stanchezza esiste. Siamo stati però siamo stati molto accoglienti con gli ucraini. Lo vedo dall’osservatorio di Sant’Egidio: abbiamo accolto alcune migliaia, il programma di distribuzione di aiuti in Ucraina ha raggiunto 23 milioni di euro, 2000 tonnellate, c’è generosità tra la gente. Serve un rinnovato sforzo umanitario per sostenere il popolo ucraino che ha fame e ha bisogno per il settore sanitario e tant’altro. È un popolo stanco che ha sofferto tanto, che è tragicamente temprato dalla sofferenza. La sua resistenza non è fiaccata. E la solidarietà più grande che possiamo offrire è quella di lavorare per la pace: per non tradirli a un certo punto, come si è visto nella storia, oppure, perseguendo su questa via, scivolare in una guerra ancora più grande.