Irpinia. L'arcivescovo Cascio: «A quarant'anni dal sisma non abbandonate queste terre»
Soccorritori al lavoro a Sant'Angelo dei Lombardi nei giorni successivi al sisma del 1980. Un minuto e venti secondi bastarono per uccidere 2.735 persone e per ferirne 8.848
La scossa di magnitudo 6.9 della Scala Richter, alle 19:34 di domenica 23 novembre 1980, mise in ginocchio la provincia di Avellino: oltre 2 mila morti sui complessivi 2.914, 8 mila feriti, 300 mila abitazioni distrutte o inagibili, 18 comuni rasi completamente al suolo e altri 99 devastati.
I costi per la ricostruzione e lo sviluppo industriale sono stati definitivamente contabilizzati nel 2012 dalla Commissione insediata presso il ministero delle Infrastrutture: 150mila miliardi delle vecchie lire, ossia 75 miliardi di euro, meno della metà dei quali destinati alla provincia di Avellino.
Sant’Angelo dei Lombardi, la capitale: scuole superiori, l’ospedale, il tribunale, quel tanto di burocrazia degli uffici che poteva dare lustro a un paese dal profilo di città, con i bar della piazza affollati di giovani, i juke box e le cabine telefoniche, a dare il segno di una modernità che si arrampicava fin lassù, tra i "paesi dell’osso" dell’Appennino campano lucano. Lioni, a due passi della statale, il polo industriale, la rappresentanza, seppure sparuta, delle tute blu, cantiere e grande emporio per le attività produttive della zona.
Poi, Conza, il nome che, in tutta la Valle dell’Ofanto continua a risuonare come un’eco: Castelnuovo di Conza, Sant’Andrea di Conza, Sella di Conza, Conza della Campania, tutto nello spazio di pochi chilometri. Poteva perfino contare su un suo piccolo triangolo di sviluppo, quel lembo di terra sconvolto da un minuto e mezzo di collera della natura.
Conza da sola, l’antica Compsa, è rimasta simbolicamente sempre a braccia conserte. Ha pensato la storia a darle tono e a elevarla a cattedra e archivio dei fatti da ricordare per tutta la zona. Le pagine più dense riguardano se stessa, e raccontano della sede arcivescovile più antica dell’Alta Irpinia, tra il sesto e il settimo secolo, di castelli e dimore gentilizie, ma anche di una lunga sequenza di terremoti.
Quello dell’Ottanta ha segnato la svolta. Dalla tragedia è sorta ancora un’altra Conza, la nuova, che ora guarda dal fondovalle la collina delle macerie diventata museo, nessun palazzo in piedi, ma solo squarci di case e di pareti, come quelle della cattedrale dedicata alla Vergine Assunta, che prima dominava il paese e ora sembra proteggerne il ricordo. Conza nuova ha case moderne ed edifici antisismici, piazze larghe e tutti i segni della ricostruzione di un borgo costretto a rifarsi una vita altrove, ma con gli occhi e il cuore rivolti lassù, in quel recinto di pietre e di rimpianti dove giovani guide raccontano, ai gruppi che vanno in visita, la vita antica di un borgo che non c’è più.
«Partendo da quest’antico centro, sento il peso e la responsabilità della storia di questa Chiesa che sei anni dopo il terremoto dell’Ottanta ha cambiato assetto, configurandosi come diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi-Conza-Nusco-Bisaccia». L’arcivescovo Pasquale Cascio, biblista, per molti anni parroco negli Alburni, in provincia di Salerno, è il pastore della diocesi del cratere. «Posso affermare che mi è stata consegnata una Chiesa in cammino secondo il Concilio Ecumenico Vaticano II, come se il terremoto, azzerando le strutture, avesse permesso di ricostruire strutture e relazioni umane secondo la novità conciliare e la nuova evangelizzazione. Si tratta ora di continuare il cammino, senza ignorare i cambiamenti sociali, ecclesiali e culturali: non ci sono più la crescita economica e il lavoro del post-sisma. La comunità ecclesiale invecchiata deve trovare una sintesi, mai raggiunta, tra tradizione e novità conciliare. Occorre prendere atto che la cultura non è più quella contadina, ma è completamente secolarizzata».
Quali problemi pastorali derivano ancora da quella realtà?
In questo momento viviamo l’incertezza e la precarietà legate a diverse cause. Uno: l’evangelizzazione tra tradizione cristiana e contesto culturale agnostico o ostile. C’è però una presenza popolare in alcuni eventi e l’impegno del laicato nella testimonianza intra-ecclesiale e nella società civile, con diverse forme di presenza culturale e solidarietà sociale. Due: il rischio di accorpamento delle diocesi, temuto, non compreso e rifiutato dalle nostre popolazioni, vedendolo come un ulteriore colpo all’identità religiosa e civile e un freno alla vicinanza umana ed evangelizzatrice. Se il terremoto diede occasione di conoscere una Chiesa che si avvicina, questo rischio sicuramente dà la sensazione della Chiesa che si allontana. Tre: la difficoltà di coniugare e reggere di fronte alle precarietà indicate e alla richiesta di senso, di storia, di cultura e di fede che sale dalle ansie e dalle paure del nostro popolo.
Il problema delle zone interne è stato sempre centrale in tutta la questione meridionale. Si è fatto qualche passo avanti, o i "paesi dell’osso" sono rimasti tali?
La pioggia dei fondi distribuiti per la ricostruzione aveva dato la sensazione che anche per i "paesi dell’osso" fosse arrivata la polpa. Purtroppo, dopo 40 anni ci ritroviamo ancora come i "paesi dell’osso", soprattutto a causa delle crisi internazionali e nazionali. A questo riguardo la Chiesa della Metropolia di Benevento, comprendente cinque diocesi sannite-irpine e l’Abbazia di Montevergine, ha preso a cuore i problemi delle aree interne avviando un processo di riflessione culturale, di coordinamento tra gli amministratori e di programmazione. Il tutto ha avuto inizio nel 2019 con la lettera "La mezzanotte del Mezzogiorno?" scritta dai noi vescovi nella comunione episcopale. Si è avviato un cammino condiviso su tutto il territorio, che ha avuto nel Forum degli amministratori (24-26 giugno 2019) e negli incontri con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (25 giugno 2020) e con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte (13 ottobre 2020) occasioni di presa di coscienza e di stimolo per continuare a essere insieme con i soggetti coinvolti, portavoce e coordinatori dei bisogni e delle proposte che giungono dal territorio. La pandemia purtroppo sta rallentando il cammino, ma si continua con incontri online in attesa di celebrare il secondo Forum degli amministratori portando nella programmazione elementi concreti per lo sviluppo di queste aree.
È un altro fronte. Ma il Covid oggi rappresenta una minaccia in più per il futuro di tutta la zona. È un altro terremoto, senza macerie di pietra?
Sicuramente il Covid rappresenta una minaccia perché mette a rischio la sussistenza di comunità invecchiate, l’abbandono negli ultimi anni dei presidi sanitari ci rende più fragili. Allo stesso tempo è però una grande occasione per redistribuire sul territorio in maniera capillare il servizio sanitario, che tenga presente della densità abitativa per alcune aree e delle distanze geografiche per altre aree. È difficile capire in cosa consisterà la ricostruzione, perché non si stanno perdendo le case, ma la vita, la salute, il lavoro e il piccolo risparmio economico. Mi sento di affermare che nel post-pandemia la novità della rinascita dovrà raccordarsi con i progetti già in corso. Non è un ritorno al passato, ma un monito, sull’esperienza del sisma, a non bruciare il presente.
Che significa avere speranza, oggi, in una realtà aggredita da mali antichi e moderni?
La Chiesa semina speranza per sua natura in quanto testimone del Risorto. Seguendo l’immagine di Peguy, come la speranza porta per mano la fede e la carità, così è necessario, in questa realtà aggredita, camminare uniti, mano nella mano: la speranza non muore finché c’è una mano amica. Infine, la Chiesa deve offrire non solo gesti di speranza, ma presentarsi sul territorio come la comunità della speranza, capace sempre di infondere speranza, non per virtù propria ma per l’energia e la ricchezza del suo Capo: Gesù Cristo.