Le foto. Noi, attoniti e feriti, davanti al volto più atroce dell'odio e della guerra
Il 19 aprile scorso erano 80 anni. 80 anni dalla Rivolta del Ghetto di Varsavia, quando le ultime decine di migliaia di ebrei sopravvissuti alle persecuzioni naziste in quella città decisero di imbracciare le armi. Senza alcuna speranza, circondati com’erano dal nemico: ma volendo almeno tentare di difendere i loro figli. Era dunque il 1943, e il tempo si è accumulato su quei giorni come strati di roccia nelle pareti delle montagne.
Quante volte abbiamo visto la foto del bambino ebreo sugli otto anni con un baschetto in testa che, così piccolo, alzava le mani davanti ai mitra tedeschi? (Quando si è vista molte volte una cosa, si crede di conoscerla a memoria. Non ci si stupisce più). Ma dal fondo di un cassetto di una famiglia polacca, nel dicembre 2022, sono stati trovati i negativi di un vecchissimo filmino. E, incredibile, erano immagini inedite del-la Rivolta del Ghetto, scattate da un 23enne pompiere polacco, Zbigniew Leszek Grzywaczewski, in servizio nella cittadella assediata. Non solo, sono a ora le uniche foto di quei giorni non riprese dai nazisti, ma da un civile estraneo.
Che cosa cambia? direte. Beh, qualcosa cambia, nello sguardo che sta dietro quell’obiettivo. Le immagini dei tedeschi raffigurano le SS orgogliose mentre sospingono le donne e i bambini con i mitra in pugno, o i cittadini in piedi contro ai muri, le mani alzate. La prospettiva è quella del persecutore, nell’elogio della violenza. Invece lo sconosciuto pompiere, probabilmente di nascosto, riuscì a riprendere, nelle stesse ore, la miseria, la disperazione ma anche la forza di una comunità. Cercate quelle foto, ora esposte al Museo Polin di Storia degli ebrei polacchi di Varsavia, sul web. È attonito lo sguardo dell’osservatore, e pietoso. Si vede un ragazzino che, portato via con gli altri, si volta indietro, forse a cercare la nonna, o un fratello. (Che si fa abbandonando, inseguiti, la propria vita? Ci si volta, spezzati, a cercarla ancora).
C’è una madre con un neonato in braccio che pare gridare qualcosa. Chiede pane, per potere allattare quel figlio? Dei bambini agli angoli delle strade ripuliscono con i cucchiai delle pentole vuote: accucciati per terra, come piccoli randagi affamati. E le madri, le facce disfatte delle madri? Ma più di tutto colpisce il gesto di una mano femminile che passa una carezza sul volto di una donna, forse una sorella, sdraiata a terra. La struggente pietà di quella carezza. La Rivolta del Ghetto di Varsavia fu stroncata nel fuoco alcuni mesi più tardi. Tutti, o quasi, uccisi, quegli uomini. Straordinario che da un cassetto, 80 anni dopo, tornino i loro volti, nell’angolazione di misericordia di uno sconosciuto. Vengono in mente certe pagine di Etty Hillesum, ragazza ebrea morta ad Auschwitz, pubblicate solo alla fine del secolo scorso. Scriveva dal campo di raccolta olandese di Westerbork: «Dovreste vedere la disperazione apatica e folle di queste povere madri, sedute accanto al giaciglio dei figlioletti che piangono. In lavanderia ho incontrato una donna che reggeva una bacinella gocciolante.
Mi si è aggrappata addosso, in un fiume di parole: “È impossibile, come è possibile, devo partire e non riesco nemmeno a fare asciugare il bucato. Il mio bambino è malato. Ha la febbre, non ho vestiti asciutti da mettergli, potrò portare almeno una coperta? Lei che dice, lasceranno i bambini con le mamme?”». O, ancora: «E i vecchi? Sono accorsa all’ingresso del campo mentre autocarri malconci li scaricavano: tanti vecchietti. Ce n’era una che aveva dimenticato gli occhiali e la sua medicina sul caminetto di casa, e chiedeva: potrò riaverli? Una donna di 87 anni si era aggrappata alla mia mano, e non voleva più lasciarla andare. E quel signore curvo di 79 anni, la moglie era in ospedale a Utrecht, e il giorno dopo lui sarebbe stato deportato. Non potete avere idea di quel ciabattare, barcollare e cadere a terra, del disperato bisogno di aiuto, delle domande - come di bambini». Ecco, le Lettere di Etty Hillesum ci avevano scaraventato di nuovo nell’inferno dell’Olocausto.
E ora, le immagini ritrovate a Varsavia sembrano dare voce e volto esattamente a quelle madri, a quei vecchi spazzati via come polvere. E di nuovo contempliamo la strage immane, increduli. Tanto male da dove, e perché? Da ragazzi, noi che abbiamo ora sessant’anni credevamo: mai più, non succederà mai più, in Europa. Ne eravamo certi. Il buio era alle spalle. Ma ora che abbiamo visto le fosse di Bucha e le deportazioni dei bambini ucraini, ora che questa guerra continua, fra crudeltà bestiali e miserabili vinti, non ne siamo più così sicuri. Che il buio possa esserci davanti? L’urgenza di praticare ostinati il mestiere di ricordare, e insegnare a ricordare, è parte essenziale della necessaria obiezione e della speranza.