Il premio. Nobel per la medicina agli scopritori del virus dell'epatite C
I tre vincitori del Nobel per la medicina 2020
Le malattie virali dominano da tempo la scena medica infettivologica attuale. Non stupisce dunque che «per la loro scoperta del virus che causa l’epatite C», come recita il comunicato ufficiale, il premio Nobel per la medicina sia stato assegnato quest’anno a tre virologi: gli statunitensi Harvey J. Alter (85 anni) e Charles M. Rise (68 anni) e il britannico Michael Houghton (70 anni).
L’epatite è un’infiammazione del fegato che ne determina un danno anatomico e funzionale. Può essere dovuta a cause diverse: quelle tossiche (alcool, alimenti o farmaci) e quelle virali sono le principali. Nell’ambito di queste ultime, tre sono le forme più diffuse: l’epatite A è causata da un virus che si trasmette per contatto diretto attraverso la via enterale (orale o fecale), l’epatite B e l’epatite C che si contraggono per via parenterale, cioè attraverso la contaminazione nel sangue (trasfusioni o altre procedure mediche non sicure, uso di droga per via iniettiva con siringhe non sterili). Mentre la prima ha un esordio e un decorso acuto, le altre due forme sono più subdole e tendono a cronicizzare. Da qui l’insidiosità di queste due forme, che determinano danni epatici importanti che possono evolvere in cirrosi (una grave degenerazione dell’organo), sovente anticamera di un successivo tumore (carcinoma).
Mentre i virus responsabili dell’epatite A e B sono stati identificati già da alcuni decenni (negli anni Sessanta quello della B e negli anni Settanta quello della A), l’eziologia virale dell’'epatite non A non B' – come veniva chiamata sino a cinquant’anni fa la forma cronica di origine sconosciuta poi denominata epatite C – è stata riconosciuta solo alla fine degli anni Ottanta, quando nel 1989 Michael Houghton ha isolato il genoma del virus denominandolo HCV (Hepatitis C Virus).
Negli ultimi anni sono stati stimati oltre 70 milioni di casi di epatite C nel mondo, con 400mila decessi all’anno. Una vera pandemia epatitica, che fa di questa patologia una delle cause più comuni di trapianto di fegato. «Grazie alla loro scoperta – ha dichiarato il portavoce del comitato del Nobel – sono ora disponibili esami del sangue specifici per il virus e questi hanno essenzialmente eliminato l’epatite post-trasfusione in molte parti del mondo».
La scoperta dei vincitori del Nobel ha svolto un ruolo importante anche nella ricerca di una terapia per questa malattia, permettendo il rapido sviluppo di farmaci antivirali diretti contro l’epatite C. Questo consente un notevole miglioramento della salute globale e per la prima volta nella storia la malattia può essere efficacemente curata, rendendo possibile l’eradicazione di questo virus nella popolazione mondiale. Infatti mentre per l’epatite A e l’epatite B sono disponibili da tempo vaccinazioni mirate che ne consentono il controllo, da alcuni anni si hanno a disposizione farmaci antivirali specifici per l’epatite C. L’introduzione nel 2013 del sofosbuvir, il capostipite di questa nuova classe farmacologica, ha rivoluzionato tutta la terapia. Ha anche però sollevato un acceso confronto sui problemi legati al costo di questi nuovi farmaci (diverse decine di migliaia di euro per singolo ciclo) e aperto un dibattito su come conciliare l’innovazione terapeutica con la logica del profitto industriale, la sostenibilità sanitaria dei Paesi occidentali e la disponibilità di questi farmaci per i Paesi poveri.
Il Nobel agli scopritori del virus dell’epatite C rappresenta dunque anche l’occasione per una riflessione più profonda sulla necessità che oggi, nell’ambito di una visione globale della sanità a favore di tutti gli abitanti del pianeta, le giuste aspettative di ogni malato possano essere salvaguardate, così come lo devono essere i legittimi diritti economici dell’industria farmaceutica e la sostenibilità della sanità pubblica, evitando intollerabili discriminazioni nella scelta di chi curare.