Attualità

L'intervista. «No all'intolleranza, ma basta buonismo»

Francesco Ognibene sabato 13 settembre 2014
Accoglienza e integrazione in Italia, intolleranza e odio anti-cristiano in molte aree del Medio Oriente: un intreccio di temi che interroga non poche coscienze, e che il vescovo di Imola, monsignor Tommaso Ghirelli, ha messo a fuoco in un articolo per il settimanale diocesano Il Nuovo Amico (cui ne segue un secondo nel numero di questa settimana) che ha suscitato più di un dibattito. Lei ha richiamato l’attenzione sulle persecuzioni cui sono sottoposti i cristiani in molte aree del Medio Oriente, chiedendo che gli immigrati musulmani che si sono insediati in Italia prendano le distanze da comportamenti inumani. Qual è la sua preoccupazione? La comunità islamica si comporterà a seconda dell’interlocutore che ha di fronte. Se le si presenta un’identità netta e forte, non sfuggente, che non ha paura della propria ombra, capirà che in Italia ci può stare a certe condizioni. Non vorrei sovrapporre l’ambito civile a quello religioso: mi sembra però che i due ambiti, pur distinti, stanno vivendo problematiche affini. Per parlare di casa nostra, rilevo che il dialogo tra le diverse culture religiose è oggi imprescindibile, ma a livello di popolo sta rivelando ancora l’impaccio dei primi passi. Ebbene, nella misura in cui la comunità cristiana si mostra nello stesso tempo aperta e ferma, è pressoché inevitabile che esso si sviluppi, perché è nell’interesse di tutti. Dialogare del resto non equivale a dare sempre ragione all’altro e neppure a sottacere le diversità di vedute, per accordarsi su ciò che è vantaggioso rimuovendo i contrasti. Conviene anzi che i punti di disaccordo siano noti ad entrambe le parti, perché solo così potranno essere prima circoscritti, poi ridotti. Il dialogo implica la dialettica. Sui media ha avuto ampia eco soprattutto l’invito ad “allontanarsi dalla nostra terra” rivolto a chi non ha il “coraggio” di opporsi, perché “nessuno vuole avere nemici in casa”. Cosa intende? L’integralismo attecchisce ancora, mentre il dialogo islamo-cristiano fa ben pochi progressi. Mi ha colpito la rapidità e l’ampiezza con cui si è diffusa la mia presa di posizione. Segno che non i comunicatori ma la gente comune sente il problema. Una suora ha sbottato: «noi facciamo tutto il possibile per i musulmani, mentre loro non muovono un dito per quanti vengono perseguitati. Era ora che un vescovo alzasse la voce!». Dalle violenze sui cristiani arriva qualche messaggio al nostro modo di accogliere gli immigrati? Certo che arriva. Lo colse oltre dieci anni fa il cardinale Biffi, che distinse opportunamente tra accoglienza e ordine pubblico. La comunità cristiana – scrisse – guarda al prossimo e lo accoglie; non si vendica per il male ricevuto. L’autorità civile guarda al bene comune e si impegna a regolare i flussi migratori, sapendo che non può accogliere tutti indiscriminatamente. Non si lasci correre fino al punto che la gente si faccia giustizia da sé. Come può essere fatta osservare la reciprocità di cui lei parla nel suo nuovo intervento sul settimanale diocesano? La reciprocità si colloca nella sfera dell’amore, dell’amicizia, che ha regole diverse – anche se non contrastanti – da quelle della giustizia. A un atto di gentilezza, una volta che lo si è accolto, si è tenuti moralmente a rispondere con un atto analogo. Ma anche sul piano della giustizia, si cerca di equilibrare il dare e l’avere, il vantaggio e la concessione. Attualmente, pregare per la pace in Siria e in Iraq è “interesse” comune tanto delle comunità cristiane quanto di quelle musulmane; ora, se noi preghiamo per loro e loro per noi, più facilmente saremo entrambi esauditi. Lei critica sia il “buonismo” sia “l’intolleranza”. Qual è la risposta adeguata alla sfida che ci viene dall’integralismo islamico e dalla crescente domanda di ospitalità? La risposta della Chiesa, quella della società civile e quella dello Stato non coincidono, ma sono complementari. Se gli islamici sono in difficoltà nel superare l’integralismo, che è una forma culturale primitiva, noi siamo in difficoltà nel formare identità robuste. I nostri giovani soffrono spesso di narcisismo. Il confronto, in linea di principio, va sviluppato dovunque sia possibile, e con ogni forma di approccio, perché la situazione è seria. L’unica cosa da evitare è rinunciare al confronto aperto, leale, informato. Cosa occorre fare perché l’Italia non debba scoprirsi, come altri Paesi europei, terra di reclutamento del jihadismo? Come uomo di Chiesa ed educatore posso rispondere solo in parte: evitare che i ragazzi musulmani che vivono qui (ce ne sono anche nelle nostre case-famiglia, nei nostri centri di formazione professionale, nei nostri oratori) si isolino o peggio vengano isolati.