Coronavirus. Zangrillo: «Le Terapie intensive sono pronte, no al contagio ossessivo»
Il coordinatore della rete nazionale delle Terapie intensive: provo rigetto nei confronti di chi alimenta paure. Il professor Alberto Zangrillo Giuste sorveglianza e limitazioni decise dal governo. Sto con la Milano che vuole ripartire «Qui al San Raffaele abbiamo fatto tesoro dell’esperienza della Sars: abbiamo predisposto una terapia intensiva “ad hoc” con 4 posti letto e una semintensiva da 14. Presto dovremo fronteggiare nuove infezioni» Una donna con una mascherina protettiva in Galleria Vittorio Emanuele a Milano: nella metropoli convivono ancora paura e voglia di ritorno alla normalità.
«Ne ho appena accettato un altro». Prego? «Lei è qui per chiedermi del coronavirus, giusto? Bene, vengo dal mio reparto, è appena entrato un altro paziente. Siamo a quattro». Pur in una fase incerta, resta ottimista Alberto Zangrillo, prorettore dell’Università Vita-Salute, primario di Anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare dell’ospedale San Raffaele di Milano e coordinatore – con il professor Antonio Pesenti del Policlinico di Milano – della rete nazionale delle Terapie intensive 'Respira'.
Scusi, gli altri tre pazienti come stanno?
Per due ho già firmato le dimissioni. Gli altri sono in trattamento.
Professore, chi finisce in terapia intensiva?
Chi ha i parametri vitali in decadenza. Più genericamente quando le funzioni di uno o più organi vengono a deteriorarsi in modo preoccupante. Nel caso del coronavirus parliamo soprattutto di severe difficoltà respiratorie e polmonari.
Di quanti giorni necessita per guarire, in media, un paziente che entra in una terapia intensiva a causa del coronavirus?
Quando non ci sono gravi altre patologie da fronteggiare, possono essere dimessi dopo 2-3 giorni. È un virus con caratteristiche diverse da quelli già visti. Che “spiazza” il nostro sistema immunitario. Sono ottimista ma dubito della ricerca che stiamo facendo sulle positività.
Non dovremmo cercare i pazienti positivi?
Lo stiamo facendo in modo ossessivo. E non riesco a seguire le “proiezioni” che definiscono la percentuale di casi gravi e quelli mortali.
Eppure chi le sventaglia sembra fare proseliti…
Ma le proiezioni sui contagiati, o positivi, sono aleatorie perché il metodo di valutazione epidemiologica che stiamo adottando è necessariamente superficiale in quanto non abbiamo dati oggettivi. Viviamo uno scenario che sembra un proscenio per filologi più o meno noti, divulgatori seriali, matematici, informatici statistici, pseudo-giornalisti e opinionisti di svariate estrazioni che dicono di tutto e litigano per trovare uno spazio. Provo un rigetto fisiologico nei confronti di queste persone e di chi alimenta paure. Pensi cosa avrei potuto fare io, che ho come paziente storico un signore proprietario di giornali e tv (Silvio Berlusconi, ndr)... potrei stare tutti i giorni in tv. Non le pare?
Ma no! E sì. Torniamo ai casi “positivi”: dobbiamo dubitarne?
Al contrario. Sono troppo pochi. Questo virus entra nel nostro albero respiratorio e, nella stragrande maggioranza dei casi, non ci fa del male. Neppure ce ne accorgiamo!
Insomma, in tanti potrebbero già averlo “smaltito”?
Esatto. E anche sul numero dei decessi – in un Paese sempre più longevo – andrebbero fatte delle considerazioni, perché coincidono con persone anziane e con gravi patologie sottostanti. Insomma, mantenendo ferma la convinzione verso una seria sorveglianza e le giuste limitazioni decise dal Governo, dico: non costruiamo scenari apocalittici, basiamoci su dati obiettivi! Giovedì in Cina il virus ha concorso ad uccidere 29 persone. In un Paese di 1,4 miliardi di persone sono numeri, con il tutto il rispetto, marginali. In caso contrario creiamo una situazione di scarso equilibrio, anche mentale, nel Paese. Ho visto chiudere sale operatorie o reparti di ospedali. Ma rischiamo di dimenticarci delle altre esigenze terapeutiche degli altri pazienti che non hanno nulla a che fare con il coronavirus.
Senta, senza considerare il coronavirus e parlando a livello nazionale, qual è la percentuale di posti occupati mediamente nei circa 4.500 letti delle terapie intensive italiane?
Siamo prossimi alla saturazione. Anche perché la quota di “pazienti fragili” è in aumento.
Ma allora che succederebbe se un picco di contagi da coronavirus favorisse un ricorso massiccio alle terapie intensive? Perché quello delle terapie intensive appare come un nervo scoperto dell’attuale situazione.
Io non credo affatto che questo accadrà. Ma anche di fronte a numeri importanti, sarebbe sufficiente il concorso delle infettivologie e delle pneumologie per prevenire un ricorso eccessivo alle terapie intensive.
Scusi se insisto. Ma anche ieri autorevoli medici e amministratori hanno parlato di una sanità, almeno qui in Lombardia, già in affanno. Insomma, non accadrà. Ma se accade?
Allora le risposte adeguate arriveranno da quegli ospedali che si saranno premuniti di prevedere situazioni di crisi. Qui al San Raffaele abbiamo fatto tesoro dell’esperienza Sars del 2009 e, da sabato scorso, abbiamo predisposto una terapia intensiva ad hoc con 4 posti letto isolati e una terapia semintensiva di 14 posti. Bisogna pensarci prima. Perché un reparto del genere non lo crei dalla mattina alla sera. E non parlo solo dei medici. Ma anche di infermieri ben formati, che sono figure cruciali in terapia intensiva. Perché l’aspetto umano e culturale è più importante di quello strutturale.
Parlava del rischio Sars di circa 10 anni fa. Cosa ci ha insegnato?
Molto. Il primo network tra terapie intensive che, da Milano, ha poi coinvolto tutto il territorio nazionale, è nato nel 2009, quando abbiamo dovuto affrontare quell’emergenza, che nacque in Messico prima di diffondersi ovunque. Noi specialisti chiedemmo al ministro della Salute Ferruccio Fazio di metterci nelle condizioni di poter fronteggiare quel rischio con un sistema evoluto che preparasse le terapie intensive: ottenemmo 25 milioni di euro, sapientemente utilizzati in questi anni – pensi che non abbiamo ancora finito di spenderli – per rinforzare dal punto di vista tecnologico questa rete di terapie intensive. All’epoca erano 14, oggi sono 16. Da allora ogni anno simuliamo crisi interne per prepararci.
Da questo punto di vista cosa ci riserva il futuro?
Presto ci dimenticheremo del coronavirus. E presto fronteggeremo un nuova infezione. Dobbiamo poter convivere con una realtà “ambientale globalizzata”. Nel bene e nel male.
Insomma, come la volti e la giri dobbiamo preoccuparci!
Ah no. Dico solo che dobbiamo essere preparati. Per il resto mi schiero con la Milano che freme per ripartire. Con prudenza sì, ma deve ripartire! Lanciando un messaggio al Paese. Ecco, in questo sto con il sindaco Giuseppe Sala. Con Sala e con tutti coloro che pensano che Milano ferma è più pericolosa del coronavirus.