Attualità

Il racconto. Al Meyer coi bimbi di Gaza. «Così curiamo le loro ferite di guerra»

Andrea Ceredani, Firenze giovedì 22 febbraio 2024

I bambini palestinesi ricoverati al Meyer, curati dai medici e assistiti da una rete di volontari, tra cui clown e musicisti che provano ad alleviare la loro sofferenza

Un violino suona accanto al piccolo Yosef (nome di fantasia, come i prossimi, su richiesta delle famiglie dei ricoverati, ndr) mentre un’infermiera si prende cura delle sue ferite. Fuori dalla porta, nel corridoio, Daniel passeggia con il suo nuovo migliore amico: il cocker spaniel appena accompagnato in struttura da un volontario. Intanto, Maya sorride dal suo letto guardando i cartoni animati. Per i sei bambini palestinesi ora ricoverati al Meyer di Firenze, il più moderno nosocomio pediatrico della città, il soggiorno in un ospedale distante 3mila chilometri da casa pare – paradossalmente – un sollievo.

Sono arrivati nei primi giorni di febbraio, dopo che i bombardamenti a Gaza hanno fatto crollare le loro case. La maggior parte è ricoverata a Firenz e per curare i traumi della guerra: su diverse parti del corpo riportano ustioni, fratture e patologie ortopediche. Per una di loro, il trasferimento in Italia si è reso necessario da un’invalidante insufficienza renale e da una dialisi ormai impossibile da portare avanti nella Striscia, dove – segnala Medici senza frontiere - «il sistema sanitario è a malapena funzionante». Accanto ai bambini, ben più riservati e meno sorridenti, si incontrano al Meyer anche i genitori. Mamme, papà o intere famiglie che accompagnano i piccoli pazienti nel percorso riabilitativo, sostenuti dal personale sanitario: «Subito è stato attivato il servizio psicologico – assicura il direttore dell’ospedale Paolo Morello Marchese – e quello di mediazione culturale: il superamento della barriera linguistica è fondamentale in casi come questo». Non solo.

Ad aiutare i pazienti è anche una folta platea di volontari: clown, musicisti e amici a quattro zampe che tentano di far dimenticare per un attimo – almeno ai bambini – gli orrori della guerra. Altri sei minori di Gaza sono già stati dimessi dall’ospedale fiorentino e vivono oggi nella vicinissima Casa Santa Matilde, struttura d’accoglienza gestita dalla Fondazione solidarietà Caritas. Dove, mentre continuano le visite e le sedute di riabilitazione, volontari e psicologi tentano una difficile mediazione. «Piano piano – spiega Vincenzo Lucchetti, presidente Fondazione solidarietà Caritas Firenze – cominciano a fidarsi di noi grazie alle parole che abbiamo detto loro, al tempo dedicato, alla pazienza reciproca e ai momenti ricreativi», che rompono il muro della diffidenza. Lo sa bene Idan, giunto a Firenze per curare il figlio e rimasto solo a giornate intere, in attesa del ritorno dal Meyer della moglie che accompagnava il piccolo nelle terapie. A preparargli la cena, dentro Casa Santa Matilde, è un’ospite di vecchia data della struttura d’accoglienza, disposta a condividere con lui tempo e dolore. Senza, naturalmente, scambiarsi una parola. «È commovente vederli assieme», commenta Lucchetti.

Ma lo sguardo dei palestinesi ospitati dalla Caritas fiorentina punta ancora verso Gaza. «Vedo molti occhi vitrei – dice Lucchetti -. Non parlano delle loro storie, ma pensano ai parenti lasciati in Palestina e sono arrabbiatissimi per tutto quello che succede». Fra le mura di Casa Santa Matilde, perciò, sofferenza è sinonimo di solidarietà. Mohamed, cuoco palestinese e padre di un paziente del Meyer, cucina spesso piatti tradizionali per rifugiati e volontari: «Ho mangiato anche io con loro – racconta commosso il referente Caritas –. Sono momenti che servono a costruire la fiducia reciproca». Giunti a Ciampino con un aereo dell’Aeronautica militare o sbarcati a La Spezia dalla nave Vulcano (di fatto un ospedale galleggiante), sono ancora poche decine i bambini di Gaza curati in tutta Italia. Dopo i bombardamenti e la fuga dalla Striscia, stanno terminando la loro odissea in ospedali pediatrici come il Meyer di Firenze. Dove, accolti e curati, il dolore si trasforma in angoscia verso il futuro, che oscilla fra una difficile integrazione e un impossibile – per adesso – ritorno a casa. «Non sanno bene quale sia il loro destino – conclude Vincenzo Lucchetti – e questo li destabilizza. Li vedo ogni giorno: sono alla disperata ricerca di un qualche punto di riferimento, di trovare una maniera quotidiana di sopravvivere in attesa che la situazione cambi».