L'analisi. Nella Capitale non manca l'acqua, ma gli acquedotti sono un colabrodo
Un problema vero, la siccità: nel Lazio le precipitazioni si sono ridotte dell’80% rispetto agli anni più piovosi. Una soluzione parziale: bloccare il prelievo di acqua dal lago di Bracciano, che fornisce a Roma solo il 2% delle necessità idriche. Un allarme esagerato perché questo blocco non ridurrà le erogazioni a 1,5 milioni di romani, neanche se si fosse arrivati all’8% come dicono sia l’Acea, la società pubblico-privata che gestisce il servizio idrico, che la Regione. Il vero dramma, invece, è che gli acquedotti romani sono dei colabrodo e perdono più del 40% dell’acqua, oltretutto ottima. Infatti quella che arriva ai rubinetti dei romani è acqua di sorgente, che viene dai monti laziali lontani decine di chilometri. Una situazione migliore delle grandi città italiane: a Milano, ad esempio, si beve acqua di pozzo, mentre a Firenze e Torino quella depurata dei fiumi. Un’eredità dell’antica Roma, imperiale e poi papale. Infatti gran parte degli acquedotti odierni segue gli antichi tracciati, e ne porta il nome (imperatori e papi). E proprio quelli più antichi risultano i migliori, mentre le perdite si riscontrano nel sistema cittadino molto più recente. Basti pensare che nel primo secolo dopo Cristo Roma era servita da ben nove acquedotti con una portata di più un milione di metri cubi al giorno, una disponibilità pro capite doppia rispetto a quella attuale. E questo già spiega molto...
Oggi il 70% dell’acqua arriva a Roma attraverso l’acquedotto del Peschiera-Capore, uno dei più grandi del mondo (è lungo oltre 130 chilometri), che la preleva in provincia di Rieti, da sorgenti di montagna. Un altro 20% arriva con l’antico acquedotto dell’Acqua Marcia che 'pesca' sempre da sorgenti nella Valle dell’Aniene, al quale possono contribuire quelli, sempre di sorgente, di Acquoria e Simbrivio. Un ulteriore 3% è trasportato dall’acquedotto Appio-Alessandrino che preleva da alcuni pozzi nel territorio della periferia romana, l’1% viene ricavato da polle sorgive di Salone e giunge nella Capitale con l’acquedotto NuovoVergine. Ci sono poi altre piccoli fonti e infine il lago di Bracciano che costituisce la riserva idrica strategica di Roma in caso di emergenze, mentre in caso di normale amministrazione fornisce il 2% del fabbisogno della città. Acqua, oltretutto di qualità inferiore al punto che a Roma c’è l’antico detto popolare 'valere quanto l’acqua Paola' dal nome dell’acquedotto, fatto costruire da papa Paolo V, che la porta in città. Nel lago, che è alimentato solo da acque piovane e piccoli fossi, l’Acea può prelevare 1.100 litri al secondo, fino a un massimo di 5mila in condizioni eccezionali. Che sono le attuali, soprattutto per la siccità. Di sicuro le sorgenti montane stanno soffrendo la scarsa piovosità di quest’anno e alcune hanno ridotto la portata fino al 20-25%. Così per mantenere in pressione il sistema di distribuzione in città l’Acea ha dovuto pescare più acqua dal lago. E lo ha comunicato già da dicembre. «C’era dunque tempo per prendere provvedimenti e invece siamo arrivati ora all’emergenza ambientale per il lago», denuncia Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente, che oggi terrà una manifestazione proprio a Bracciano. Come intervenire? «Bisogna fare investimenti sulle enormi perdite della rete, ma è un intervento ovviamente a lungo termine – sottolinea Zampetti –. Poi bisogna cominciare a ripensare il modo in cui si usa l’acqua a Roma. Non si può utilizzare quella potabile per tutto. Già in altre città, ad esempio, ci sono sotto le piazze delle cisterne che raccolgono l’acqua piovana per usi non potabili. Il livello tecnologico su questo è molto avanzato. A Roma non è mai stato fatto nulla. E poi fin dall’inizio, a dicembre, oltre a pescare da Bracciano, bisognava tagliare i consumi. E invece i primi interventi del comune sono appena di giugno e la regione è arrivata adesso. Acea fa i propri interessi ma è un gestore che esegue piani che vengono dalle amministrazioni locali. Se questi non ci sono...».