Reportage dalla Sicilia. Nel mercato degli schiavi un migrante costa la metà
La tomba nel cimitero di Modica è una semplice lapide in pietra a terra coperta dal disegno di una piuma incatenata da filo spinato. Sotto il disegno è scritto il nome di Tesfalidet Tesfom, 24enne eritreo ripescato in mare e portato a Pozzallo il 13 marzo dalla nave Proactiva dell’Ong Open arms, ricoverato in condizioni disperate per la fame, la tbc e le percosse subite dai trafficanti e morto dopo 24 ore di agonia. Pesava 30 chili, al medico che gli ha risposto perché fosse ridotto così ha risposto: «Libia».
«Ti prego fratello, prova a comprendermi/ ti prego aiutami», invocava Tesfom.
Parole che descrivono anche la situazione delle migliaia di braccianti che magari non sono passati dalla Libia, ma vengono sfruttati in silenzio in questa fascia della Sicilia del Sud, tra le province di Siracusa e Ragusa, nascosti nel mare bianco delle serre da Modica a Pachino fin sulla costa, accanto a scenari da cartolina resi celebri dalle fiction del commissario Montalbano.
«Qui – spiega Giorgio Abbate, responsabile immigrazione della Caritas locale – si concentrano le aziende agricole che, anche a pochi passi dal mare e dai borghi marinari, dedicano ogni spazio di terra per la produzione in serra o a campo aperto per molti mesi l’anno, oltre che del pomodoro di Pachino, di ortaggi, frutta, vino, olio».
Pochi si occupano dei braccianti che in queste campagne lavorano senza orari né dignità, spesso sottopagati. Si chiama dumping. Tradotto: i prezzi alla produzione si contengono sulla pelle dei lavoratori stranieri mentre i prezzi alla vendita restano alti, a vantaggio di mafie e grande distribuzione. Vicino alla spiaggia di Marina di Acate la Caritas diocesana di Ragusa, che con Noto è in trincea e collabora strettamente, ha aperto 4 anni fa uno sportello del progetto Presidio della Caritas nazionale. L’anno scorso venne vandalizzato a scopo intimidatorio da ignoti. «Non sono riusciti a fermarci – commenta il direttore di Caritas Ragusa, Domenico Leggio –. Noi offriamo ai lavoratori agricoli e alle loro famiglie accoglienza, ascolto, sportello legale, lo sportello sindacale curato dalla Cgil, il servizio di medicina e infermeria con la fornitura di alimenti per neonati, la distribuzione di abiti. E un laboratorio teatrale per i bambini dei braccianti per reinterpretarne la situazione».
«Stimiamo – prosegue Leggio – che ci siano in zona almeno 3mila braccianti, spesso con le famiglie. E che ci siano circa 250 bambini, 100 dei quali contattati. Sono soprattutto maghrebini e romeni. Non tutti riescono ad andare a scuola perché spesso sono molto distanti e restano isolati dai coetanei. Passano la giornata sotto le tende mentre i genitori lavorano. Il giovedì li passiamo a prendere. Così riescono a tornare piccoli per qualche ora».
Nel Ragusano, lavorano 25mila braccianti contrattualizzati, non si sanno le cifre del nero. Si teme che anche i minori siano sfruttati al lavoro nelle serre, come confermano alcune testimonianze agli operatori. Secondo il rapporto del Presidio di Ragusa per il 2017, su 420 lavoratori aiutati circa la metà erano romeni, un quarto tunisini, l’8% marocchini e il 5% italiani. Le ore di lavoro non si contano e sono sottopagate, le tariffe del dumping sono su base etnica. «C’è una sorta di scala. Italiani e tunisini – nota Peppe Scifo, segretario generale della Cgil di Ragusa – guadagnano 35 euro al giorno, i romeni fino a 25 32. Molti sono contrattualizzati mentre i richiedenti asilo prendono in nero 15 20 euro».
Agli stagionali a contratto dopo 51 o 102 giornate lavorate spetta la disoccupazione. In queste, come in altre campagne del Sud, ne vengono segnate meno. Capita anche che venga chiesto al lavoratore di pagarsi i contributi affitto con la disoccupazione. «Le aziende in regola? Sono minoritarie». Il mercato ortofrutticolo di Vittoria è il più ricco del Mezzogiorno ed è oppresso dalla cappa delle tre mafie – camorra, ’ndrangheta e Cosa nostra – come dimostrano diverse indagini della Dia e inchieste parlamentari. Di proprietà regionale, viene gestito dal Comune e anche a causa di questo il prefetto di Ragusa ha inviato da mesi la commissione di accesso in municipio. Se ne attende la relazione per valutare il commissariamento.
«La filiera dell’ortofrutta a Vittoria – commenta Scifo – è inquinata dalle cosche e dai loro interessi in diversi segmenti. Dall’imposizione di servizi come l’imballaggio, in mano a cosche locali, al trasporto gestito dai casalesi che con i pomodori spostano anche la droga. E qualche anno fa venne ucciso in centro Michele Brandimarte, boss dell’omonima famiglia legata alla cosca Piromalli-Molè di Gioia Tauro».
Sempre a Vittoria, ogni notte si consuma il dramma di molte donne, soprattutto romene, schiave anche sessuali nelle serre di alcuni datori di lavoro senza scrupoli. Avvenire nel 2010 aveva raccolto la denuncia di padre Beniamino Sacco, coraggioso parroco di periferia allo Spirito Santo, dove da 20 anni ha aperto due centri di accoglienza. «Non è cambiato nulla – sbotta l’anziano parroco – perché violenze e ricatti sessuali in cambio del lavoro continuano. Nessuna parla per paura, allora lo faccio io per difenderle. Molte braccianti chiamano i datori 'padroni' e alcuni pensano di poter disporre di queste lavoratrici come schiave».
Anche a Pachino, Ispica, Rosolini e Scicli, nella diocesi di Noto, lo sfruttamento morde, ma il salario di piazza arriva almeno a 35 euro per regolari ed esperti. Tuttavia la collocazione di centri di accoglienza vicino alle aziende ha spinto diversi richiedenti asilo a trovare impiego in nero a 15 euro. «Dai colloqui con oltre un centinaio di braccianti – chiarisce Giorgio Abbate, che segue il Presidio diocesano che opera in rete con Croce Rossa, Diaconia valdese e Flai Cgil – si sono riscontrate varie forme di sfruttamento, con persone che lavorano addirittura sette giorni su sette».
«Il giovane Tesfom – conclude Maurilio Assenza, direttore e anima della Caritas diocesana di Noto – ci ha lasciato due poesie toccanti in cui ci domanda: «Non sono forse tuo fratello, perché non chiedi notizie di me»? Chiedere notizie di lui e dei tanti migranti che condividono la sua sorte o sono sfruttati, questo è il modo migliore per ricordarlo». La vera battaglia in questa prima linea è contro l’indifferenza che ha addormentato le coscienze.