9 ottobre 1963. Nel cimitero del Vajont: «Io, sopravvissuta». L'omaggio di Mattarella
Il luogo del disastro dopo la frana del 9 ottobre 1963. Le fotografie sono dell’Ispettorato dei Vigili del fuoco, sede di Belluno
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sarà questa mattina nei luoghi del disastro del Vajont, sul versante veneto e su quello friulano, dove 60 anni fa ci fu la tragedia che causò la morte di duemila persone. Gli abitanti di Longarone e della valle del Piave ebbero solo quattro minuti per tentare di mettersi in salvo, la notte del 3 Ottobre 1963, prima che l'onda generata dalla frana del Toc nell'invaso del Vajont superasse la diga, radendo al suolo il paese. Erto, Casso e Castelavazzo sono diventati paesi fantasma, con case e finestre sbarrate. Longarone è stata rifatta a forza di cemento armato. I sopravvissuti sono ormai poche decine. «Per noi fu come la fine del mondo. E un evento del genere non si può descrivere. Solo chi c'era può capire» dice oggi Italo Filippin, 79 anni, già sindaco di Erto e Casso (Pordenone), da molti anni diventato il più apprezzato «informatore della memoria» per le quasi 100mila persone che ogni anno vengono a visitare la Diga del Vajont, gestita dal Parco naturale delle Dolomiti friulane. «Solo all'alba capimmo cosa era accaduto». Il bilancio ufficiale fu di 1.910 persone morte, tra cui 487 di età inferiore ai 15 anni.
Si comincia dal cimitero. «Sì, se si vuol capire cosa ha provocato la diga», dice Micaela Coletti, presidente del “Comitato per i sopravvissuti del Vajont”, e usa il passato prossimo. Dal cimitero perché «qualcuno vede quella diga come qualcosa d’eccezionale - continua -, ma è solo una cassa da morto, definiamola per quella che è». Si comincia. “Cimitero monumentale vittime del Vajont”, a Fortogna, frazione di Longarone: 1.910 lapidi, a terra fra erba ben curata e verde intenso, ciascuna col nome di chi morì la notte del 9 ottobre 1963 (il più piccolo aveva ventuno giorni). Però i corpi o i resti riconosciuti furono solo 726 e i morti di quella tragedia probabilmente superarono i 2mila. Alcuni riposano ancora sotto ghiaia e terra, a valle. Nel cimitero stamane ci sono sette od otto persone e silenzio assoluto.
Cosa resta sessant’anni dopo? «Assolutamente niente», risponde Micaela. «E questo senso di essere presa in giro continua». Lei aveva dodici anni. «Quella bambina è sempre qui - dice, sottovoce, nel cimitero -, continua ad avere dodici anni, a chiedere un abbraccio della mamma, una carezza, un abbraccio del papà». La voce le s’incrina per un istante, quella notte perse tutti, non le rimase più nessuno: «Vorrei tornare a casa mia, non la ho più da sessant’anni e la casa non è solo l’appartamento in cui si vive». Si ferma. Poi, sempre sotto voce: «Fu trovato e riconosciuto papà, solo perché aveva i documenti addosso. Mia mamma, mia nonna, mia sorella tredicenne, non vennero trovate o riconosciute, non lo so». Non ha mai capito come fece a salvarsi: la ritrovarono a mezzo chilometro da casa, seppellita, fuori dal fango e dalla terra solo una mano e un piede. Nove ottobre 1963, le 22 e 39, cinquanta milioni di metri cubi d’acqua s’impennano verso il cielo, scavalcano la diga, si spezzano in tre onde, la più grande punta a valle, schianta l’aria con la potenza di un’atomica e la pelle di chi è in strada, piomba a terra scavando un cratere profondo quaranta metri. Un inferno senza fuoco.
Il boato era stato improvviso, il mostro d’acqua l’avevano creato 270 milioni di metri cubi di terra franati dal monte Toc e piombati, in un minuto, nel bacino creato artificialmente della diga, un lago da quasi 170 milioni di metri cubi d’acqua. Tutti sapevano da un pezzo che sarebbe accaduto, che il Toc si muove e sbriciola, che quel prodigio avveniristico di tecnologia non doveva essere costruito qui. Lo sapeva anche la Sade, poi acquistata dall’Enel, che la diga l’aveva voluta, costruita ed era molto, molto potente: i collaudi prima li faceva, riempiendo e svuotando il bacino (scuotendo e stressando le pareti del Toc) e dopo chiedeva l’autorizzazione per farli. Del resto in ballo c’erano troppi soldi e prestigio internazionale, per lasciar perdere il megaprogetto del “Grande Vajont”. Meglio nascondere i dati e ipotizzare scenari approssimativi, però rassicuranti.
Eppure già dal 1960 il monte cedeva, frana più volte e il 4 novembre si alza un’onda anomala di dieci metri. Poca (si fa per dire) roba rispetto al fronte che rischia di crollare, scoperto l’anno prima da Edoardo Semenza, geologo (figlio del progettista della diga, Carlo Semenza). Però era davvero un prodigio, quasi 267 metri, lunga 190, inaugurata nel 1961: sessant’anni dopo, la diga è qui, appena scalfita dal tempo. Longarone, il paese a valle, venne invece spazzato via. Il più grande, non l’unico. Andiamo avanti, di nuovo in macchina, ma prima d’andare sulla diga, la superiamo su una piccola strada ai piedi del monte Toc, che lo costeggia e il “buco” lasciato dalla frana si vede bene ancora oggi, lungo un paio di chilometri. «Cosa provo quando lo vedo? A dir la verità, niente», spiega Micaela. I ricordi sono nitidi. «Mio papà lavorava in diga, sapeva bene cosa doveva succedere - racconta -. Qualche sera prima, avevo sentito mia madre e mio padre che discutevano e mia mamma diceva “è arrivato il momento di mandar via di casa i bambini”. Mi sono impietrita, ho sentito un gran dolore e pensato “ma cosa abbiamo combinato, che la mamma vuol mandarci via di casa?!”».
Micaela adesso va tutta d’un fiato: «Mio papà le risponde, “è inutile mandarli a Belluno, venisse giù la diga, morire a Longarone o a Belluno è lo stesso, meglio morire tutti insieme”». Per arrivare alla diga non serve il navigatore, cartelli che indicano come raggiungerla ce ne sono un bel po’. Maestosa e questo pomeriggio piena di visitatori, si fatica a trovare parcheggio. Micaela non ha voglia neppure di scendere dalla macchina: «Di tutto questo resta solo un dolore privato e non dovrebbe essere così o la storia non cambierà mai». E in sessant’anni non sembra essere troppo cambiata. Lo ripete: «Venire qui dopo essere stati al cimitero, fa vedere questa diga con un altro occhio e fa riuscire a capire i danni che ha portato...».
A proposito. La “Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont” consegnò la sua relazione finale il 15 luglio 1965: «L’esperienza del passato deve servire per il futuro» si legge all’ultima pagina.
Si comincia dal cimitero. Sì.