Attualità

ROSARNO. Né acqua né luce nel ghetto degli invisibili

Antonio Maria Mira sabato 30 novembre 2013
«Qua c’è il rischio di una guerra tra poveri». È molto preoccupato Raphael, immigrato del Burkina Faso. Assieme ad altri 40 connazionali occupa una casetta, poco più di una catapecchia, nelle campagne di Rizziconi, località "bivio Marotta". È uno degli "invisibili" che vivono tra uliveti e agrumenti della Piana di Gioia Tauro. Tra fango e freddo. «Siamo circa mille a vivere in queste condizioni», ci spiega. E poi aggiunge il perché della sua preoccupazione. «Il "posto" è di altri immigrati che sono andati a lavorare a Foggia, ma hanno già chiamato che stanno tornando. Sarà un casino tra noi». Una "guerra" per un tugurio. Entriamo. Due stanze senza luce né acqua (tranne quella che piove dal tetto), reti e materassi ammassati. I vestiti sono appesi ai chiodi. Coperte offerte dai volontari delle associazioni cattoliche, gli unici che "osano" avventurarsi in queste zone. Come Bartolo Mercuri, presidente dell’associazione "Il Cenacolo" che opera con la Caritas diocesana di Oppido-Palmi, nostro accompagnatore nel dramma di Rosarno. Questa volta ha portato scarpe. Le avevano chieste gli immigrati e ora, ordinatamente, se le dividono.Fuori dalla catapecchia ci sono alcune baracche. In una i tappeti per la preghiera. Un’altra è attrezzata a doccia: alcuni teli di plastica per garantire la privacy e uno a terra per evitare il fango. «L’acqua l’andiamo a prendere in un campo vicino ma a piedi, non usiamo le biciclette per non rovinare il terreno. Il contadino è gentile e già ci sopporta...», dice ancora Raphael. Acqua comunque non potabile. «Ma noi la beviamo lo stesso...», sorride. Bolle un pentolone su un fuoco di legna. È per la doccia. Altre baracche, rami e plastica, sono vuote. «Le abbiamo fatte per quelli che arriveranno». Sperando che si accontentino e, davvero, non scoppi la "guerra" tra poveri.Salutiamo gli immigrati che ci chiedono una sola cosa. «Non vogliamo stare tutti insieme a Rosarno, ci portino qui le tende, vicino al lavoro». Quello che c’è. Anche quest’anno se ne vede poco e mal pagato. Eppure vogliono solo lavorare. Proprio Raphael, 30 anni, in Italia da 14, un lavoro lo aveva, nel bresciano. «Facevo il falegname in fabbrica ma poi con la crisi sono stato il primo ad essere licenziato. Dal 2011 sono qui».Ci spostiamo e ci infiliamo in una stradina sterrata in mezzo agli ulivi. Siamo a Drosi e questa era una piccola fattoria. Ora sembra un villaggio africano, ghetto per circa 250 immigrati. «Papà Africa», «papà Caritas», così accolgono Bartolo. Casette diroccate, col tetto coperto in qualche modo da teli di plastica. Panni stesi, galline che scorrazzano. Nelle casette, anche qui senza acqua né luce, è il consueto caos di materassi, brande e coperte. Gli immigrati sono fuori, seduti in gruppetti. «Oggi niente lavoro». Chissà quando... Ma nessuno si lamenta. Nessun problema con i locali. Su un capannone le bandiere francese e italiana, un quadro di Cristo e un piccolo Babbo Natale. Ma quale Natale li attende? Scene che si ripetono a decine tra Gioia Tauro, Rosarno, Rizziconi, San Ferdinando. "Invisibili" ma ben noti a tutti.Ci spostiamo nella grande tendopoli di San Ferdinando che, al confronto, sembra una reggia. Le tende sono ordinate, ci sono alcune stufette, anche queste dono del volontariato, in particolare della parrocchia di S. Antonio, guidata da don Roberto Meduri. Ma non c’è elettricità da maggio. E nel frattempo qualcuno ha perfino rubato parte dei cavi. «Se ci danno la luce a noi basta – dice Khadim –, il resto lo dobbiamo trovare noi, ci arrangiamo». Ed è quello che fanno. L’acqua c’è ma non è potabile. «La beviamo lo stesso se no che facciamo?». Ci sono i bagni e per le docce è nato un piccolo commercio di acqua calda: un secchio 50 centesimi, scaldata sul fuoco di legna. L’arte di arrangiarsi. Non l’unica. Un immigrato ghanese taglia i capelli, alcune donne preparano dolci tradizionali. Un altro immigrato ha tirato su una baracca dove cucina. «È il ristorante della tendopoli», scherza. Un altro, proveniente dal Gambia, aggiusta le biciclette. C’è la fila. «È bravissimo e gli diamo qualche euro», ci spiegano. Certo i problemi non mancano. I rifiuti non li porta via nessuno. Allora li bruciano attorno al campo e sono quelli prodotti da centinaia di persone. Ma c’è anche voglia di normalità. Amidu del Burkina Faso si è costruito una specie di chitarra con una piccola tanica, un bastone e dei cavetti d’acciaio. Ma anche qui c’è la stessa preoccupazione. «Quando arriveranno gli altri qui sarà "guerra" tra poveri». Anche perché la tendopoli è piena e attorno cominciano a sorgere le prime baracche.