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Le difficoltà. Nati o istruiti qui, i sogni infranti dalla burocrazia

Stefano Pasta domenica 17 settembre 2017

(Ansa)

Da piccola la milanese Rania voleva diventare commissario di polizia. Youness di Reggio Emilia, prima di "ripiegare" su Ingegneria, è cresciuto con il mito del pilota d’aereo. Sogni spezzati perché il paese in cui sono cresciuti li ripudia e riserva questi lavori a chi ha la cittadinanza italiana. È la stessa scoperta che fanno diversi studenti "italiani senza cittadinanza" che, una volta laureati in Scienze politiche, Legge o Scienze della Formazione, scoprono di non poter partecipare a diversi concorsi pubblici, di non poter lavorare nei Ministeri o diventare maestre d’asilo. La giurista Daniela ha scoperto, facendo un tirocinio al Tribunale di Bergamo, che sarebbe voluta diventare magistrato, ma la legge italiana non lo permette a chi non ha la cittadinanza. Mohamed di Torino invece ha fatto un corso per assistente di volo, ma con il suo passaporto extraUe può mandare il curriculum solo a qualche compagnia low cost.

Sogni spezzati e lavori "rifiutati": Simona di Trieste era stata chiamata a Londra per un impiego nel settore della moda, ma l’Inghilterra l’ha vista solo con il binocolo a causa di problemi legati alla sua cittadinanza, cioè quella del Paese d’origine, in cui non è cresciuta. Stesso problema – e stesso esito – per Manusha che, risultato il primo della scuola a un concorso della Regione Toscana, aveva vinto uno stage a Portsmouth.

La legge italiana rende diseguali i figli degli immigrati rispetto ai coetanei con cui sono cresciuti insieme. Al lavoro, ma anche durante la formazione. La gita all’estero in quarta superiore saltata per problemi di visto è un grande classico, ma anche l’università: enormi difficoltà per fare l’Erasmus, o master all’estero. Jean Paul, assistente di un professore all’Università di Milano, non può partecipare a un prestigioso convegno ad Atene per le lungaggini burocratiche per ottenere il visto. Insomma, si può vivere anche senza andare in Erasmus, ma questa si chiama discriminazione. Poi ci sono episodi grotteschi come quello successo a Ilham di Sassari lo scorso marzo: viene invitata a Montecitorio perché premiata dalla Fondazione Italia-Usa tra i neolaureati italiani più brillanti nelle discipline di interesse dell’ente, ma non può assistere alla seduta della Camera perché straniera.

Il viaggiare è spesso problematico, o almeno tutto è più complicato: i cantanti Luca e Sonny, entrambi nati e cresciuti a Roma, devono rinunciare alle tournée all’estero, la farmacista di Campogalliano (MO) Thelma non può andare a Glasgow a trovare il padre.
Le discriminazioni nello sport agonistico sono un altro grande classico. Il diciassettenne Michal, nato e cresciuto nella Capitale, è salito sul podio negli ultimi tre campionati italiani di judo, ma può seguire i Mondiali cadetti solo incollato allo schermo: se avesse avuto la cittadinanza, avrebbe indossato la maglia azzurra. Come Bader di Garda: passione e ottimi tempi per la corsa, ma l’Italia si ostina a riconoscerlo solo come marocchino; intanto suo zio, con la maglia del Belgio, ha stabilito i record europei sui 3mila, 5mila e 10mila metri.

C’è poi chi è impegnato in politica, vorrebbe candidarsi e spendersi per il Paese in cui è cresciuto, ma non può neppure votare. In tanti esprimono una cittadinanza vissuta che è negata sulla carta: Giancarlos di Genova va in Malawi per un progetto di lotta all’Aids, Mohamed di Torino fa volontariato in carcere e il suo omonimo di Milano è rappresentante degli studenti di Ingegneria industriale al Politecnico. Però anche qui le discriminazioni non mancano: non può candidarsi al Senato accademico perché extracomunitario. Non avere la cittadinanza può anche portare, nel caso limite della perdita del permesso di soggiorno (magari perché si viene licenziati), all’espulsione dall’Italia: è successo a Luca, nato al Regina Elena di Roma nel 1988.

Quando poi si presenta la domanda di cittadinanza (e lo Stato poi si prende vari anni, a volte anche sei, per guardare le carte e dare una risposta), inizia una lotta estenuante. Bisogna a volte andare nel paese di origine per ottenere dei documenti, magari la fedina penale per attestare di non aver commesso reati nel posto in cui si è vissuto nei soli primi anni d’infanzia. Pratiche lunghe e costose. Del resto i soldi sono un’altra costante: insieme al sangue (ius sanguinis), per la legge attuale il censo – e non la scuola (ius culturae) – fonda "l’italianità"; molti ragazzi arrivati in Italia da piccoli, dopo oltre un decennio di vita qui rimangono stranieri perché con cud troppo bassi negli ultimi tre anni. Questi "troppo poveri per essere italiani" sono precari che lavorano all’università, studenti che lavorano alla sera o nel weekend, lavoratori stagionali nei resort turistici, o giovani che come i loro coetanei cercano un impiego.