Coronavirus: le storie. Natale al Covid hotel Adriano di Milano. «La famiglia? È qui»
Chiara, al centro, tiene in braccio il piccolo Mimì. Con loro altri ospiti dell’Adriano community center
Libertà, casa, Napoli, my children, i miei bambini. Ha 24 nomi (uno per ospite), pronunciati in 8 lingue diverse, il senso della vita al Covid hotel Adriano, periferia Nordest di Milano. lbrahima lo urla in corridoio, appena gli dicono che il tampone finalmente è negativo: «Torno a casa, vedo nascere mio figlio!». Qualcuno applaude attraverso le porte sigillate per la quarantena, qualcuno s’affaccia, «ce l’hai fatta, grande». È festa per tutti. Lui, poco dopo, è già in reception con la valigia: ha l’Africa sul volto e nel cognome, ma la sua Betlemme è appena fuori Bergamo, «a casa non potevo stare col Covid, mia moglie è incinta». Il viaggio di Ibrahima è iniziato ai primi di dicembre: la tosse, il test positivo, la decisione sofferta di trascorrere l’isolamento lontano «per mettere lei e il piccolo al sicuro».
Ora è il momento di tornare «e farlo per Natale è il regalo più bello». Il piccolo “miracolo”, in questo parallelepipedo di speranza che doveva essere una Rsa all’avanguardia e in una manciata di mesi s’è trasformato in Covid hotel, si ripete due o tre volte a settimana: per un ospite nuovo che arriva ce n’è uno che guarisce e torna là fuori, a vivere.
In mezzo l’attesa, e un inaspettato Presepe di viandanti. Ne fa parte anche Susan, insegnante di inglese al primo anno scolastico in Italia, dove è arrivata a settembre coi suoi bimbi dalla Repubblica Ceca. Il giorno che è salita la febbre ed è finita in ospedale è stato l’inizio di un incubo: il tampone dice Covid per lei, non per i piccoli, che vengono allontanati, Susan non parla italiano e non capisce cosa succede. In corsia, nel mezzo della seconda ondata, è il delirio: Susan non trova più nemmeno il telefonino, è agitata, piange, nessuno ha tempo di ascoltarla, pensano sia matta. Finché viene spedita all’Adriano community center: in un’ora, grazie all’infermiere dell’Usca di passaggio che per un colpo di fortuna parla ceco, il direttore della struttura Andrea Casiraghi è al telefono coi Servizi sociali del Comune, «Susan, i tuoi bimbi stanno bene, adesso ti ci faccio parlare». E la donna torna in sé.
Andrea mostra il biglietto appeso all’armadio del suo ufficio – «Grazie per avermi ascoltata quel giorno» – e parla di bisogni della collettività, di strutture necessarie a soddisfarli, di umanità delle cure e di ascolto, appunto. Ha trent’anni appena (come quasi tutti i suoi 12 dipendenti, una squadra presente h24 in struttura, sempre col sorriso) e di pazienti Covid ne ha incontrati quasi 800 da quando, a marzo scorso, lo hanno incaricato – insieme alla società Proges, per cui lavora – di aprire il primo Covid hotel d’Italia, al Michelangelo, in Stazione centrale. «Quell’esperimento ha funzionato, ci siamo presi cura di 511 persone durante la prima ondata e abbiamo permesso ad altrettante di trovare un posto in ospedale che altrimenti sarebbe mancato. A novembre, quando tutto è ricominciato, la cosa più naturale era fare lo stesso anche qui all’Adriano». Dove di ospiti ne sono transitati, in un mese, già 208: il 60% stranieri (dall’Ecuador al Pakistan fino all’India), il 70% uomini (ma anche due famiglie al completo), l’età media 45 anni. «Siamo un presidio sociale, stiamo intrecciando progetti con molte realtà presenti sul territorio, a cominciare dalla Casa della carità, proprio per venire incontro a chi vive l’emergenza sanitaria dentro quella abitativa».
Patrizia, un’altra ospite passata dal Covid hotel del quartiere Adriano di Milano, viene controllata da uno degli operatori della struttura sulla porta della sua stanza - Claudia Greco, Agf
C’è quella dei più poveri, ma non solo: di una casa per la quarantena hanno bisogno gli studenti fuorisede che condividono gli appartamenti, i militari venuti da lontano e alloggiati nelle caserme, i manager di passaggio nella grande Milano e rimasti bloccati dal Covid. «E noi diamo una casa, ecco qua. Alla fine di tutto, quando l’Adriano tornerà ad essere quello per cui era nato, una Rsa e un centro di servizi alla collettività – racconta Andrea –, questo pezzo di storia sarà bello da raccontare: la collettività ha bisogni, e noi durante la pandemia abbiamo risposto al bisogno che c’era».
Vittorio, ricoverato per Covid il 26 Ottobre al San Gerardo di Monza e, una volta migliorato, trasferito nella struttura per la quarantena - Claudia Greco, Agf
Anche Chiara, la creativa di origini siciliane che s’è ribattezzata Covid influencer postando tutto del suo isolamento e ha trasformato il primo piano della struttura in un piccolo condominio, trascorrerà il Natale a casa. Aveva già addobbato la scopa in dotazione nelle stanze con le lucine rosse e promesso a Mimì, il bimbo di due anni e mezzo della sua vicina di stanza (nigeriano, anche lui positivo), un regalo. Forse non si incontreranno mai più, «ma per due settimane siamo stati una specie di famiglia», col piccolo che scorrazzava in corridoio e rendeva le giornate più facili da sopportare per tutti.
Enrico resta, invece: 22 anni, poliziotto, il Covid l’ha incontrato in servizio ed è entrato da meno di una settimana, «starò per forza qui. Sarà la prima volta che passo le feste senza la mia famiglia, che vive a Napoli. Sto imparando il senso della rassegnazione, in compagnia di Netflix».
La signora Carla dovrà tornare in ospedale: a 84 anni il coronavirus può far male e «l’altra sera ha cominciato a non saturare più come dovrebbe – spiega Andrea – . Il Covid hotel non è un ospedale, qui non ci sono medici, solo personale che tiene la situazione sotto controllo misurando costantemente la temperatura e l’ossigenazione. Siamo più sicuri, vista l’età, se Carla finisce la sua quarantena sotto osservazione». A convincerla ha pensato la figlia, che tutti i giorni si piazza sotto la sua finestra per farle vedere la cagnolina di casa: «Qui sono tanti i familiari che vanno e vengono o che consegnano oggetti, pacchi, cibo da far recapitare ai propri cari».
Come Said, col suo piatto di riso indiano per la moglie, che dalla terapia intensiva è uscita per un soffio e ha finito il suo percorso in hotel. Un mese e mezzo senza una carezza: «Eppure lui quel riso l’ha cucinato e consegnato alle 10 tutte le mattine, fino al giorno in cui se l’è riportata a casa, sana e salva. Vederli andare via piano piano, sottobraccio – dice ancora Andrea – è stato commovente».
Natale al tempo del Covid è la speranza di ricominciare a camminare insieme che diventa realtà, dopo tanto buio. Said saluta da lontano: lui non l’ha persa mai.