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Caporalato. Narinder, l'indiano morto (già dimenticato da tutti)

Antonio Maria Mira giovedì 9 agosto 2018

La Procura di Santa Maria Capua Vetere ha aperto un’inchiesta sulla morte del bracciante indiano Narinder Singh. Su ordine della magistratura i carabinieri dei Nas hanno sequestrato le cartella clinica del trentottenne sikh, deceduto il 26 luglio nell'ospedale di Maddaloni dove era stato ricoverato il 5 luglio. Morto ufficialmente per arresto cardiaco ma si sospetta concretamente che sia la conseguenza di terribili condizioni di lavoro e di vita.

Narinder è stato trovato a terra davanti alla stazione di Caserta, letteralmente scaricato da un’auto da qualcuno che lo aveva prelevato da dove lavorava, un’azienda bufalina di Castel Volturno. I primi a soccorrerlo sono stati alcuni senza fissa dimora che frequentano lo scalo ferroviario. Ma il bracciante non reagiva, non si muoveva. Così gli stessi clochard hanno chiamato i volontari dell’associazione 'L’Angelo degli ultimi', che opera spesso nella zona, che hanno subito capito le sue gravissime condizioni, col corpo disidratato, provato da mesi di malnutrizione e stenti. È stato subito portato nell’ospedale di Maddaloni, dove, malgrado le cure contro disidratazione e denutrizione, è morto dopo un’agonia di venti giorni. Ad interessare la magistratura è stato il sindacato Flai Cgil che ha presentato un esposto, nel quale si chiede di fare chiarezza sulla morte del bracciante sikh.

E la procura, guidata da Maria Antonietta Troncone, si è subito mossa prima con l’acquisizione dei documenti sul ricovero e sulla morte di Narinder, e successivamente con la decisione di far effettuare un’autopsia, proprio per capire i reali motivi del decesso e le sue condizioni. Come ricostruito dal sindacato, il bracciante era giunto nel Casertano dal 2007, ma precedentemente era già stato a Brescia e poi a Nettuno, in provincia di Roma, zona dove è molto presente la comunità sikh. «Il sospetto – spiega Giovanni Mininni, segretario nazionale della Flai Cgil – è che dietro la morte di Narinder vi possa essere una delle tante storie di sfruttamento lavorativo e di riduzione in schiavitù. L’uomo – rivela – aveva estese scottature sul corpo e non aveva con sé il cellulare, che probabilmente gli è stato sottratto dei suoi sfruttatori. Prima di morire ha raccontato che lavorava presso un’azienda agricola e di allevamento di Castel Volturno, dove curava gli animali».

Una storia drammatica che ricorda quella di un altro bracciante sikh, Balbir, che Avvenire ha raccolto nel lungo reportage sul caporalato. Anche lui impiegato in un’azienda agricola e di allevamento, ma in provincia di Latina, anche lui sfruttato. Ma ha avuto la forza di denunciare i suoi aguzzini che ora sono sotto processo. Narinder non ce l’ha fatta. Ma ora si cerca qualcuno che possa raccontare la sua storia. Il sindacato ha diffuso la sua foto nelle varie comunità sikh italiane, per ricostruire soprattutto la sua vita lavorativa e lo sfruttamento. E qualcuno che lavorava con lui si sarebbe già fatto avanti. Una testimonianza preziosa che identificare i datori di lavoro e, soprattutto, le condizioni che gli imponevano. «Nei prossimi giorni – prosegue Mininni – depositeremo in Procura altre informazioni. Bisogna fare chiarezza per ridare dignità a Narinder e a tante persone sfruttate come lui».

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